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Il calvario di Julienne

Aiuto alla Chiesa che Soffre - pubblicato il 14/04/14

La terribile storia del perché una donna cattolica ha sposato un musulmano abusatore in Africa – e di come è fuggita
“Sei anni fa, quando ho iniziato il college, ho incontrato quello che sarebbe diventato mio marito”, racconta Julienne, una giovane congolese di poco più di trent’anni. Fervente cattolica, è appena uscita da quattro anni di un’intensa sofferenza morale, fisica ed emotiva che ha caratterizzato il suo matrimonio con un uomo musulmano in cui il rispetto e la tolleranza iniziali si sono rivelati una bugia.

Nella Repubblica Democratica del Congo (DRC), i cristiani rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione, mentre i musulmani sono meno del 10% della popolazione. Come in molte culture del mondo, il matrimonio è un obiettivo e un sogno per molte ragazze e le loro famiglie, perché offre una notevole spinta sociale. È fonte di grande orgoglio per i genitori, e assicura un guadagno economico.

Alcune ragazze sono costrette a cambiare la propria religione e le proprie pratiche per unirsi alla fede del marito. Quando obiettano, sono spesso i genitori poveri a esercitare pressioni su di loro perché lo facciano. In queste circostanze, le unioni non durano molto, e per la giovane sposa non è una bella esperienza. Per Julienne, il matrimonio è stato un incubo.

“Studiava Scienze nel mio stesso istituto, aveva qualche anno più di me”, ha ricordato. “Gli ho dato tutto il mio cuore e l’ho amato teneramente. Tutto sembrava andare bene. Io continuavo a recarmi regolarmente a Messa, e a volte lui veniva con me in chiesa la domenica sera”.

“Non c’era alcun accenno di violenza nel suo comportamento. Al contrario, si mostrava generoso e affettuoso. Andava alla moschea solo nei giorni di festa e giurava che non si sarebbe mai opposto alla mia fede cattolica”.

“Un anno dopo l’inizio della nostra relazione, è venuto a trovare me e i miei genitori con suo padre e la sua matrigna. I miei genitori sono stati d’accordo e gli hanno concesso la mia mano”.

“Lui ha preso il fatto che la nostra relazione fosse ormai ufficiale come avere carta bianca. Ho iniziato a notare dei cambiamenti nel suo comportamento e nel suo atteggiamento nei miei confronti. A poco a poco, ha iniziato a proibirmi di andare in chiesa. ‘Sai molto bene che sono musulmano, quindi tu devi smettere di andare in chiesa, dove adori statue e dipinti’, ha detto”.

“Ha iniziato a pianificare le sue visite e le nostre passeggiate quasi sempre la domenica e in quelle occasioni che mi impedivano di andare a Messa”, ha proseguito Julienne.

“Man mano che il tempo passava e la data del nostro matrimonio si avvicinava, è diventato più esigente e insistente: ‘È escluso che tu frequenti quella ‘chiesa del 666 [allusione al Libro dell’Apocalisse],’ diceva. ‘Devi iniziare a venire con me alla moschea e cambiare il modo in cui ti vesti’. Era diventato un ritornello quasi quotidiano”.

“A quel punto ho cominciato ad avere seri dubbi, e paura e insicurezza si sono impadronite di me. Ho iniziato ad aggirare la sua sorveglianza per andare a Messa qualche sabato sera. A volte evitavo le nostre uscite domenicali per poter andare a Messa”.

“Decisi di parlare ai miei genitori per dire loro della mia intenzione di rompere il fidanzamento e annullare il nostro ormai prossimo matrimonio, ma anziché trovare conforto presso i miei, mi hanno rimproverato severamente e hanno minacciato di disconoscermi se fossi andata avanti con i miei piani”.

“Sono stati rafforzati nella loro opposizione dalle mie zie e dai miei zii, che speravano di partecipare ai benefici che avrebbe portato il mio matrimonio con questo figlio di una famiglia benestante”.

“Malgrado la mia determinazione e il legame con la mia fede, sono stata costretta a rinunciare e ho avuto un matrimonio tradizionale in base ai riti musulmani”.

È stato l’inizio del calvario di Julienne, che ha subito umiliazioni, abusi fisici ed emotivi, la denigrazione della sua fede e il crollo quasi fino alla disperazione.

“Avevo tutti i comfort che potevo volere in casa e perfino una Jeep a mia disposizione. Non mi mancava nulla, avevo tutto, tranne la pace”, ha ricordato.

“Nei quattro anni del mio matrimonio, non ho conosciuto alcun tipo di felicità in casa. Nei giorni in cui non viaggiava, il mio ex marito tornava a casa per pranzo. Sentire il rumore della sua macchina che si avvicinava mi metteva i brividi”.

“Accadeva spesso che quando tornava a casa volesse fare l’amore, in modi sempre rudi e inappropriati, in qualunque posto mi trovasse, ed era estremamente brutale”. “Mi diceva apertamente: ‘Sei il mio oggetto di piacere; devi fare ciò che voglio, e se non vuoi puoi andartene e unirti alle suore. E anche quelle suore, sono lì sono per far provare piacere ai sacerdoti”.

Malgrado tutto, Julienne è rimasta salda nella sua fede. “Ogni volta che era lontano da casa per lavoro, passavo due o tre giorni pregando intensamente Gesù, implorandolo di trasformare mio marito e di farlo tornare in sé”.

“Avevo la mia Bibbia e il mio rosario, che tenevo nascosti dove tenevamo le scorte di cibo, in una parte della casa in cui non si recava quasi mai”.

“Un anno dopo il nostro matrimonio, lui ha sposato una seconda donna, stavolta una musulmana. La mia sofferenza è aumentata notevolmente. Non passava ogni notte a casa nostra; trascorreva quasi ogni giorno con la sua seconda moglie. Veniva da me solo per soddisfare i suoi desideri fisici e nel modo brutale che preferiva”.

“Ha iniziato anche a picchiarmi violentemente. ‘La tua chiesa ti ha resa stupida e ipocrita’, diceva. ‘Continua a pregare la tua vergine falsa e chiedile di aiutarti’”.

Quasi cinque anni dopo, Julienne ha deciso di porre fine al matrimonio e ha cercato rifugio presso una delle sue zie. “Quando ho raggiunto il limite e ho iniziato a rischiare di ammalarmi gravemente, l’ho lasciato senza neanche salutarlo”.

“Approfittando del fatto che era quasi sempre lontano da casa, ho preso tre mesi per prepararmi a separarmi da quell’uomo. Con l’aiuto di mia zia, sono fuggita e mi sono trasferita con lei a Kigali. Non ho nemmeno detto ai miei genitori che me ne ero andata”.

“Mia zia mi ha trattato con grande affetto e si è assicurata che ricevessi assistenza psichiatrica per affrontare le mie esperienze profondamente traumatiche. A poco a poco sono tornata a vivere, tornando ad essere una donna felice”.

“Ho continuato ad andare in chiesa, stavolta in completa libertà, e ho rinnovato il mio rapporto con i sacramenti, inclusa la Comunione, della quale avevo dovuto fare a meno per alcuni anni”.

“Un anno dopo sono tornata al college e mi sono laureata. Mi sento orgogliosa, libera e indipendente”.

“Piano piano ho ricostruito la mia vita, con determinazione, convinzione e un grande sorriso”, ha concluso Julienne.

[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]