Il caso della donna morta a Torino deve far riflettere sulle verità cliniche ed umane che troppo spesso i dati ufficiali nascondonoOra è accaduto anche in Italia. L’autopsia dovrà ancora emettere il suo verdetto tecnico, ma il racconto dei fatti non necessita di prove. Due sere fa, una donna è deceduta all’ospedale Martini di Torino. Il suo cuore si è fermato dopo due crisi cardiache scatenatesi temporalmente – l’avverbio è d’obbligo – dopo la somministrazione di un antidolorifico, necessario a ridurre gli effetti delle prostaglandine assunte poche ore prima. Questo secondo farmaco costituisce il secondo momento di quella cura complessa che è la RU486, definita erroneamente e piuttosto superficialmente “pillola abortiva” mentre invece va considerata come un processo in più fasi. Nel momento in cui una donna decide di abortire farmacologicamente, infatti, dopo il via libera del ginecologo viene sottoposta in una struttura ospedaliera all’assunzione di mifeprostone – la RU486 vera e propria – che ha lo scopo di bloccare l’azione del progesterone, un ormone che favorisce e “protegge” la gravidanza. A quel punto la donna può lasciare l’ospedale, dove tuttavia deve tornare dopo due giorni per assumere sotto controllo medico le prostaglandine, utili ad aumentare l’efficacia della prima molecola, ed eventualmente altri farmaci che ne limitano gli effetti collaterali. La prostaglandina, infatti, che provoca le contrazioni dell’utero necessarie ad espellere la mucosa, è molto spesso causa di crampi accompagnati – i dati sono contenuti in un dossier AIFA del 2009 – da nausea (34-72%), vomito (12-41%), diarrea (3-26%) e complicanze molto severe (sotto l’1%). Il sanguinamento prodotto dall’aborto vero e proprio, in genere, continua a quantità variabili per una settimana. La donna di Torino, che aveva già un figlio di 4 anni ed era in buone condizioni di salute, dopo aver assunto il secondo farmaco e l’antidolorifico ha mostrato difficoltà respiratorie. Sottoposta d’urgenza ad un’ecografia, le è stata riscontrata una fibrillazione ventricolare, che negli istanti successivi l’ha portata ad un arresto cardiaco. Un defebrillatore in un primo momento le ha fatto ripartire il cuore; tuttavia, poco dopo, una seconda crisi cardiaca l’ha portata alla morte.
Mentre si attendono i risultati dell’autopsia disposta dall’ospedale e la relazione del medico curante, il dolore della famiglia, che non ha ancora presentato alcuna denuncia, e la costernazione dell’equipe sanitaria si mescolano alle voci subito intervenute a commentare l’accaduto. “Siamo sconvolti, e vicini alla famiglia della signora – ha dichiarato il direttore sanitario, Paolo Simone –. Anche per noi questa tragedia non ha una spiegazione. Ma possiamo garantire di aver rispettato fin dall’inizio il protocollo per l’interruzione di gravidanza col metodo farmacologico, così come possiamo garantire di aver fatto tutto ciò che era umanamente e professionalmente possibile anche nei due tentativi di soccorrere la signora, dopo le crisi respiratorie” (La Stampa). Il ginecologo Silvio Viale, colui che più di ogni altro ha spinto per l’immissione della pillola abortiva in Italia, si è affrettato a ricordare che questa è la prima morte da RU486 in Italia, dove sono 40.000 le donne che l’hanno assunta. Viale ritiene che non vi sia alcun nesso teorico di causalità con il mifepristone (RU486). Sarebbero piuttosto gli “altri farmaci utilizzati nelle interruzioni di gravidanza, sia mediche che chirurgiche, che possono avere effetti cardiaci, seppure raramente: la prostaglandina (gemeprost) in primo luogo, già individuata come responsabile di decessi e complicazioni cardiache, ma anche l'antidolorifico (Ketorolac) ampiamente utilizzato off-label in gravidanza e l'antiemorragico (metilergometrina) utilizzato in Italia di routine in quasi tutti gli aborti in ospedale e a domicilio” (La Repubblica).
Va ricordato che la RU486, dopo anni di polemiche, entrò in commercio in Italia nel 2009, con l’autorizzazione dell’Agenzia Italiana per il Farmaco, per consentire alle donne, entro la settima settimana di gravidanza e quindi nel rispetto della 194, di scegliere tra le due opzioni, quella chirurgica e quella farmacologica. I dati citati da Viale sono quelli dell’AIFA, e parlano di 25 decessi nel mondo su un milione e mezzo di aborti eseguiti con questo metodo. Ma questi dati, in realtà, nascondono la verità più di quanto non aiutino a comprenderla. Ce ne spiega i motivi il professor Renzo Puccetti, specialista in medicina interna, membro della Research Unit della European Medical Association e Socio fondatore dell’Associazione Scienza & Vita.
Professore, che idea si è fatto di questo caso?
Puccetti: Innanzitutto è doveroso per tutti noi esprimere una solidarietà umana nei confronti della famiglia che è stata colpita da questa tragedia: una donna è morta, e il figlio ha perso la mamma, oltre a un possibile fratellino. Ma questo può essere il punto di partenza per una riflessione più generale. Innanzitutto, voler accomunare il rischio che deriva dalle procedure abortive con quello connesso alle complicanze e alla mortalità da parto significa voler mettere insieme le pere con le mele. Se questa fosse la logica, bisognerebbe sconsigliare a tutti di far nascere i figli perché il parto è sempre una possibile emergenza da un punto di vista clinico, e questo ginecologi ed ostetrici lo sanno molto bene. Eppure, alla fine di un parto, quando succede che muore la donna, c’è un figlio che nasce. La casistica più recente che riguarda l’Italia racconta di circa 50 donne morte (Fonte: Istituto Superiore di Sanità) rispetto a un milione di bambini che sono nati. Riguardo alla mortalità durante l’aborto, che dai dati sembra inferiore (con la RU486, circa 1 ogni 100.000), uno deve considerare che di morti ce ne sono due, mamma e figlio.
Quali altre inesattezze sono contenute in questi dati?
Puccetti: La mortalità non va vista solo nell’immediato, ma va esaminata estendendo il periodo di osservazione. In questo ambito abbiamo dati che sono spesso taciuti, ma che fanno parte della letteratura internazionale: a un anno di distanza, o dalla nascita del bambino o dalla morte del bambino, la mortalità delle donne che abortiscono è di tre volte più alta rispetto alla mortalità delle donne che invece danno alla luce un figlio. Questo tipo di osservazione è stato esteso non solo a un anno, ma a dieci anni, e ora abbiamo il dato anche a 25 anni di distanza: il risultato ci dice che le donne che abortiscono hanno una mortalità sempre più alta delle donne che partoriscono. Addirittura, il dato a 25 anni mostra un rapporto lineare tra numero di aborti e mortalità. Quindi possiamo dire che abortire fa sempre molto male al bambino, ma fa molto male anche alla donna. Si dice, “questo non è causato dall’aborto direttamente, perché le donne che abortiscono hanno in sé un rischio maggiore”; benissimo, ma allora da questo si ricava che l’aborto dal punto di vista della tutela della salute della donna è una procedura quantomeno futile, perché non abbassa assolutamente questo rischio.
E quali sono le differenze tra aborto chirurgico e aborto farmacologico?
Puccetti: E’ scorretto non considerare i rapporti di rischio tra le due procedure perché il rischio va misurato a parità di età gestazionale: in questo senso, il dato più recente, pubblicato sul New England Journal of Medicine nel 2010, ci dice che il rischio con la procedura di tipo farmacologico è 6 volte più alto rispetto al rischio con procedura chirurgica. I rischi del resto non sono soltanto la mortalità, ma anche possibili eventi avversi – come emorragie, sanguinamento – poi ci sono gli effetti collaterali legati al dolore: i dati sono tutti maggiori per la procedura farmacologica.
Allora perché da tutto l’ambiente abortista viene vista con grande favore?
Puccetti: Perché da un lato è uno strumento per incrementare l’accesso all’aborto: è molto più facile portare l’aborto anche dove ci sono complicazioni con un blister di compresse piuttosto che dover usare strumenti chirurgici. Inoltre è una procedura volta alla “domiciliazione dell’aborto”: mentre un’operazione chirurgica comunque sia viene fatta in ospedale, l’aborto farmacologico può essere domiciliarizzato. Tutte queste procedure di Day Hospital prevedono la somministrazione del primo farmaco – cioè la vera RU486 – dopodiché la donna va a casa, e in un 5% dei casi già abortisce solo con la prima pillola. Ma in realtà la RU486 aumenta l’efficacia con il secondo farmaco che sono le prostaglandine, che determinano forti contrazioni uterine di tipo espulsivo: di solito i protocolli dicono di trattenere la donna per circa 4 ore, durante le quali l’espulsione del bambino avviene solo nel 50% dei casi. Questa donna, in quasi la metà dei casi, avrà l’aborto vero e proprio, e ricordiamo che tecnicamente l’aborto non è “la morte” del bambino, ma l’espulsione (o l’estrazione nel caso della chirurgia) del bambino. Quindi succede che la donna abortisce a casa, qualche volta addirittura sull’autobus. Siccome queste contrazioni spesso sono molto dolorose, si somministrano altri farmaci: se la donna ha la diarrea le si dà un farmaco, se ha il vomito si dà l’antiemetico, se ha un dolore forte l’antidolorifico. In realtà non ha senso isolare tutto questo dalla RU486. Sicuramente la RU486 prevede l’assunzione di tre farmaci, poiché oltre ai due c’è anche l’antibiotico: ma poi spesso si danno altri farmaci per contrastare gli effetti collaterali. Ogni farmaco ha un suo profilo di rischio, piccolo, ma assunti insieme si ha una moltiplicazione dei rischi. Nel caso di Torino sembra che la donna si sia sentita male dopo la somministrazione dell’antidolorifico, quindi potrebbe essere benissimo che si sia trattato di una complicanza magari allergica all’antidolorifico, ma questo non si può sganciare dalla RU486. Queste sono le informazioni giuste che uno dovrebbe dare. Purtroppo a volte chi le fornisce è un po’ medico, un po’ politico e così via, bisogna capire in che veste sta parlando.