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La famiglia come luogo di educazione alla pace

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Dimensione Speranza - pubblicato il 10/04/14

La capacità di superare le conflittualità attraverso la mediazione dell'amore conferisce alla famiglia, come comunità di personalizzazione, un ruolo rilevante nell'educazione allo spirito di pace

di Giorgio Campanini

Il problema della pace, della sua promozione e del suo mantenimento, è affrontato prevalentemente sul piano ideale e politico, soprattutto in relazione alle istituzioni che promuovono la pace (o, al contrario, la ostacolano). Minore attenzione è stata invece accordata alla dimensione «privata», e specificamente familiare (ma «privata» soltanto in apparenza, come si vedrà), di questo valore, quasi che un fossato incolmabile separasse politica di pace e vita quotidiana.

Non è così, invece: una politica di pace (e, al contrario, la propensione alla guerra e alla violenza) si costruisce anche – seppure non soltanto – su un diffuso abito mentale che porta alla regolazione, al ridimensionamento ed alla fine al superamento della conflittualità. Sotto questo aspetto, quella della pace è una questione di strutture1 ma anche di atteggiamenti complessivi, soprattutto in un regime democratico, all’interno del quale la forza dell’opinione pubblica, nonostante i ricorrenti tentativi di manipolazione, può meglio manifestarsi e finire per imporre la sua volontà di pace.

Ad illuminare questo aspetto del problema rimasto in ombra – il ruolo, appunto, della famiglia nella costruzione dello «spirito di pace», e dunque nella formazione di una cultura di pace2 – tenderanno queste essenziali riflessioni.

Le ambivalenze della famiglia

Affrontare il tema della pace in ottica familiare implica la necessità di prendere le mosse da una premessa, forse sgradevole, ma necessaria: la famiglia non è soltanto il luogo della concordia, del dialogo, della pace, ma anche la sede delle contrapposizioni e dei conflitti, spesso i più profondi e pervasivi. Prescindendo da alcune sue discutibili derive ideologiche, la psicanalisi – con il suo impietoso disvelamento della complessità e dell’ambiguità delle relazioni familiari e degli stessi sentimenti – ha messo acutamente in evidenza gli aspetti di conflittualità delle relazioni intrafa-miliari, sia nei rapporti genitori-figli, sia nella stessa società fraterna. Il moderno Occidente – caratterizzato da una marcata riduzione delle nascite, dalla precarietà delle relazioni, dalla frequente dissoluzione dei legami – ha in parte ridimensionato questa tendenziale conflittualità, a favore di un rapporto genitori-figli improntato spesso al cameratismo ed alla permissività, piuttosto che all’esercizio, in passato spesso oppressivo, dell’autorità. Analogamente la relazione fraterna, ricorrentemente conflittuale, o è venuta del tutto meno per effetto della frequente scelta del figlio unico (con la conseguente estinzione della «società fraterna») o si è trasformata in un rapporto bipolare non inquinato da contese legate alla successione ed all’eredità (fine della «primogenitura»). Nonostante questi mutamenti, tuttavia, permangono inevitabilmente nella famiglia aspetti conflittuali, per certi aspetti ancora più acuti che in passato. Al di là dei ricorrenti fatti di cronaca (certo enfatizzati dai mass media, ma pure reali e spesso drammatici), è la stessa vita delle attuali società occidentali che secerne spesso la conflittualità: particolarmente evidente, e manifesta, quella fra uomo e donna nel matrimonio o nella convivenza, evidenziate anche dall’amplissima letteratura sulle crisi coniugali e le loro conseguenze. La questione dell’affidamento dei figli appare il luogo più drammatico di queste conflittualità3.

Occorre dunque evitare di cadere in una visione idilliaca della famiglia, prendendo atto che le relazioni fra le persone sono sempre esposte al rischio dell’inaridimento e della corrosione, anche se almeno inizialmente mediate dall’affetto; ma nello stesso tempo riconoscendo alla famiglia (pur senza poter rimuovere del tutto tale dialettica, peraltro potenzialmente foriera di una nuova e migliore qualità dei rapporti) la capacità di mediare le diversità ed alla fine di comporle e di superarle proprio per la particolare «qualità» della relazione che qui, in modo assai più intenso e profondo che altrove, viene ad instaurarsi fra le persone. È sotto questo aspetto che la famiglia può diventare un luogo tendenziale di formazione allo spirito di pace; e ciò senza indulgere alla retorica né cedere a facili irenismi, ma movendo dal riconoscimento della struttura essenzialmente amicale della famiglia. Qui la logica della contrapposizione fra «amico» e «nemico» è, o dovrebbe essere, l’eccezione, non la regola.

Oltre la confittualità

In quale misura, pur in questo contesto problematico, la famiglia può essere ancora un «luogo di pace»? La risposta a. questo interrogativo va ricercata nella peculiarità della comunità familiare che di norma non si fonda sulla convenienza, sull’utilità, sulla subordinazione di alcuni soggetti ad altri, ma sull’amore (e ciò soprattutto a partire dalla modernità, che si è caratterizzata proprio per il passaggio dal matrimonio imposto al matrimonio liberamente scelto). Grazie all’amore i conflitti, che pure restano, possono essere dapprima controllati e poi superati ed il gruppo familiare sperimenta come dal contrasto possa emergere, attraverso il dialogo e, se necessario, il perdono, la riconciliazione e una ritrovata «amicizia» (coniugale e fraterna).

La capacità di superare e comporre la conflittualità attraverso la mediazione dell’amore è ciò che conferisce alla famiglia un ruolo di grande rilevanza nell’educazione allo spirito di pace. In nessun altro luogo, in nessun altro ambiente, all’interno di nessun’altra istituzione – dalla sfera dell’economia a quella della politica – la composizione dei conflitti può essere affidata all’amore; lì, inevitabilmente, prevalgono le regole, pensate appunto per evitare la degenerazione del conflitto: il grande merito della democrazia è quello di regolamentare le diversità, evitando che esse degenerino in una guerra civile; analogamente, le regole della concorrenza evitano, nell’ambito del mercato, che la concorrenza determini la distruzione dell’avversario (vanno in questo senso la legislazione sul commercio, la disciplina dei monopoli, e così via). Numerosi sono i meccanismi inventati dall’uomo per evitare che il contrasto degeneri in contrapposizione frontale e in lotta senza esclusione di colpi; ma qui, nella società, il solo strumento sul quale contare sono appunto le regole, modesto surrogato dell’amore; mentre la famiglia, quando sia pienamente se stessa, sa oltrepassare il sistema delle regole, inevitabilmente legato al principio di reciprocità, per raggiungere la difficile ma più gratificante logica del dono (e del perdono).

In sintesi, nelle istituzioni diverse dalla famiglia (salvo rare eccezioni, come alcune comunità religiose basate su forti motivazioni ideali), la pace (sociale) &eg
rave; affidata alle regole, e dunque alla legge; qui, nella famiglia, alla gratuità dell’amore. Molto opportunamente, a questo riguardo, è stato rilevato che il diritto può soltanto «lambire» – e soprattutto nei momenti di eccezionalità – la vita della famiglia4. È appunto questo l’elemento che differenzia la famiglia dalle altre comunità, che si reggono, necessariamente, sull’istituzione5. Al criterio del rigoroso bilanciamento dei diritti e dei doveri subentra il «principio dialogico»6, e cioè la ricerca di una nuova e più alta qualità della relazione.

Sotto questo aspetto la comunità familiare rappresenta una sorta di unicum nella società: proprio per questo essa è una insuperabile, e da nessun altro sostituibile, scuola di pace. Altrove la conflittualità è moderata e superata dal ricorso ad un sistema di regole; qui (e quasi soltanto qui) lo stesso processo avviene attraverso la mediazione di un amore che lega fra loro le persone e trasforma quella che potrebbe essere una semplice convivenza fra persone in una comunità. È dunque educatrice alla pace una famiglia che – indipendentemente dalle regole cui essa stessa è talvolta assoggettata – neutralizza e supera la conflittualità attraverso la mediazione dell’amore. E ciò perché, al di là delle ragioni del conflitto, la famiglia riesce (o dovrebbe riuscire) a vedere il volto dell’altro, nella linea a lungo percorsa da una delle più significative correnti del Novecento, quella che va da Mounier a Lévinas7. Altrove i conflitti sono «senza volto», e per questo appaiono ineliminabili; nella famiglia hanno, e non possono non avere, un volto. Dalla consapevolezza che, al di là delle differenze e dei contrasti, stanno sempre i «volti» nasce la capacità mediatrice e personalizzatrice della famiglia, messa felicemente in luce soprattutto dalla pedagogia di ispirazione personalista8.

La famiglia come "modello" per la società?

Fino a che punto questo particolare «modo familiare» di affrontare e di superare la conflittualità è estensibile ad altre forme di rapporto? Costruire la pace in famiglia è in qualche modo costruire la pace anche nella società e nei rapporti fra i popoli?

Rispondere a questo interrogativo implica necessariamente affrontare il rapporto fra comportamenti personali e strutture sociali.

Non bastano «virtù private» se esse non si trasformano anche in «virtù pubbliche»: l’edificio della pace ha bisogno, per essere costruito, di uomini e donne di pace ma anche di strutture di pace. È, questo, un compito che evidentemente travalica le capacità e le attitudini della famiglia; non è tuttavia irrilevante l’atteggiamento di fondo verso l’altro che la famiglia assume (o, in negativo, non assume) attraverso i suoi comportamenti e i suoi stili di vita. Merita di essere sottolineato in particolare quanto già in precedenza rilevato a proposito dell’attitudine personalizzatrice della famiglia: al suo interno non vi sono (non vi dovrebbero essere) esseri anonimi e impersonali, ma soltanto «volti» precisi ed individuabili; ma lo spirito di guerra e di violenza nasce, e può persistere, soltanto se si impone l’anonimato dei «volti». Colui che viene astrattamente identificato come «nemico» o come «avversario», con il quale è impossibile intrattenere un dialogo e tentare una mediazione, può diventare, attraverso l’incontro diretto, allorché ci si guarda negli occhi, un «tu» con il quale appare possibile instaurare, in nome della comune umanità, un rapporto non necessariamente caratterizzato dalla contrapposizione amico-nemico. Così avviene nel Parlamento, quando gli avversari politici possono guardarsi negli occhi; in un’azienda, quando «capitalisti» e «proletari» diventano uomini e donne concreti con i quali intavolare un negoziato; in un campo di battaglia, quando l’incontro si fa ravvicinato e l’astratta figura del «nemico» si trasforma in un uomo concreto. Emblematico, al riguardo, quanto talvolta accadde nel corso della prima guerra mondiale – in qualche raro momento di tregua – allorché i soldati degli opposti eserciti poterono per qualche istante uscire dalle trincee e guardarsi negli occhi: dopo allora, continuare ad uccidersi apparve a molti assurdo e inumano, proprio perché la guerra perdeva il solo connotato che la rende possibile, e cioè l’attitudine a considerare l’altro come un essere anonimo, come una «cosa», non più come un «volto» con il quale misurarsi. È per questa ragione che tutti gli ideologi, tutti i rivoluzionari, tutti i dittatori possono imporsi soltanto alla condizione di trasformare l’altro in astratte figure, quella del «capitalista», del «borghese», dello «straniero», e comunque sempre del «lontano». La vicinanza distrugge o comunque ridimensiona gli stereotipi dell’ideologia.

In questo senso si può affermare che una pedagogia della pace si fonda sull’attitudine al riconoscimento, e poi al rispetto, ed infine all’amore perl’altro: sotto questo aspetto il ruolo della famiglia come «comunità di personalizzazione» è fondamentale9.

Questa attitudine all’incontro con l’altro può essere sviluppata e potenziata attraverso la realizzazione di piccole, ma persistenti e diffuse, «strutture di pace». Se ne indicheranno qui, senza pretesa alcuna di esaustività, alcune. La prima via da percorrere in vista dell’educazione alla pace è quella della valorizzazione delle differenze. Lo spirito di violenza si nutre del rifiuto, ed al limite della demonizzazione, delle differenze (etniche, culturali, religiose e così via); l’ambiente familiare – a partire dalla differenziazione dei sessi – è invece il luogo eminente in cui le differenze, senza essere negate, vengono vissute potenzialmente come ricchezza e non come povertà.

Una seconda direttrice è quella della reale conoscenza, al di là degli stereotipi, dell’altro: non più «il musulmano» o l’«extracomunitario» ma persone concrete, con le quali è possibile instaurare un dialogo in nome della comune umanità, al di là di ogni diversità.

Una terza strada da percorrere – in collaborazione con le istituzioni scolastiche – è la concreta sperimentazione, attraverso incontri e letture, incontri personali o viaggi, di forme di incontro con altri popoli e altre culture; &egr
ave; la via dell’«interculturalismo», che non significa un passivo allineamento di culture diverse ma presa di coscienza, attraverso la propria identità, di altre possibili, e diverse, identità.

Questo insieme di atteggiamenti, e di sperimentazioni, non costituiscono propriamente «strutture di pace» (queste non possono che essere costruite su altri piani) ma possono rappresentarne il necessario fondamento culturale, la base di quell’epos di pace senza il quale le stesse strutture internazionali costruite in vista della pace rischierebbero di essere prive della necessaria base dì consenso10.

da: La Famiglia – Rivista di problemi familiari. n.251: 57-62. 2010.

1 La necessità di uno stretto collegamento tra la formazione ai valori (in particolare di giustizia) e la creazione di strutture adeguate (e cioè di «strutture giuste») è stata posta in particolare evidenza da P. Ricoeur, Amore e giustizia, ed. it. a cura di I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia, 20072. Nella vasta letteratura sul pensatore francese ci limitiamo a segnalare AA.VV., L’io dell’altro – Confronto con P. Ricoeur, a cura di A. Danese, Marietti, Genova, 1993 (ivi, alle pp. 97 ss., alcune nostre riflessioni sul tema, «Dall’estraneità alla prossimità»).

2 Una panoramica della lunga riflessione della cultura dell’Occidente sul tema della pace – attraverso i profili di alcune grandi personalità – è descritta in E. Butturini, La pace giusta – Testimoni e maestri tra ‘800 e ‘900, Mazziana, Verona, 20074.

3 Sugli elementi di conflittualità presenti nella famiglia, soprattutto al momento della crisi, pone l’accento A.L. Zanatta, Le nuove famiglie, H Mulino, Bologna, 20033. Tale conflittualità, per l’autrice, va ricondotta da una parte all’esasperazione delle aspirazioni individuali dei singoli componenti la famiglia, dall’altra al diffuso «individualismo affettivo» (p. 13). Sul contesto generale nel quale si colloca la famiglia di oggi (insieme con la presa d’atto della permanenza nella storia di una serie di problematiche), sia consentito rinviare a G. Campanini, Famiglia, storia, società, Studium, Roma, 2008.

4 Cfr., su questo tema, F. D’Agostino, «Presupposti per una filosofia del diritto di famiglia», in AA.VV., Matrimonio e famiglia, Quale futuro?, Massimo, Milano, 2001, pp. 26 ss.

5 Non sono mancate nella storia esperienze di costruzione, in qualche modo «artificiale», di comunità orientate a riprodurre lo spirito comunitario della famiglia; ma la vicenda di queste sperimentazioni mostra la difficoltà di trasferire lo spirito comunitario della famiglia al di fuori di essa. Sul punto cfr. A. A. W., Promuovere famiglia nella comunità, a cura di E. Scabini e G. Rossi, Vita e Pensiero, Milano, 2007. Ivi, in particolare, R. Bonini, S. Mazzucchelli, «La cura dei legami di coppia nella comunità familiare», pp. 243 ss.

6 M. Buber, Il principio dialagico (e altri saggi), San Paolo, Cinisello Balsamo, 1993. All’origine del dialogo sta la capacità di situarsi come «io» di fronte ad un «tu» con il quale instaurare una relazione profonda. La relazione coniugale appare quasi il prototipo di questo incontro chiamato a svilupparsi in profondità e durata.

7 Suggestivi sviluppi di questo tema, in dialogo con la filosofia del Novecento, in I. Mancini, L’ethos dell’Occidente, Marietti, Genova, 1990.

8 Cfr. AA.V.V., a cura di L. Pati, Ricerca pedagogica ed educazione familiare – Studi in onore di N. Galli, Vita e Pensiero, Milano, 2003. Di particolare interesse il contributo di M. Santerini, Educazione alla socialità nella famiglia, pp. 511 ss. (con puntuale bibliografia sul tema), ove si mette in evidenza il ruolo della famiglia come luogo di integrazione tra «morale della giustizia» e «morale della cura»: nasce di qui l’educazione all’altruismo» in vista della quale il mondo della famiglia rappresenta un’area di significativo apprendistato (pp. 516 e 519).

9Cfr. M. Corsi, «Famiglia», in Dizionario di teologia della pace, a cura di L. Loren
zetti, Dehoniane, Bologna, 1997, pp. 447-53. L’insieme dell’opera offre un’interessante
panoramica delle piste percorribili in vista dell’educazione alla pace.

10Su questo tema si vedano le acute e sempre valide riflessioni svolte in J. Maritain, L’uomo e lo Stato (1952) (trad. dal francese), Vita e Pensiero-Massimo, Milano, 1992
(cfr. in particolare il cap.: «Il problema dell’unificazione politica del mondo»). Sull’im
portanza di quest’opera, in occasione del quarantennio della sua pubblicazione, richia
ma l’attenzione il volume collettivo Stato democratico e personalismo, a cura di G. Ga
leazzi, Vita e Pensiero, Milano, 1995.

qui l’articolo originale

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