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Il Ruanda di Immaculée

Photos of victims of the 1994 Rwandan Genocide – it

© STEVE TERRILL/ AFP

RWANDA, Kigali : Photos of victims of the 1994 Rwandan Genocide hang in the Kigali Genocide Memorial in Kigali, Rwanda on April 7, 2012. In the quickest and bloodiest massacre since the Holocaust, the 1994 Rwandan Genocide claimed approximately 800,000 mostly Tutsi lives in the span of 100 days. AFP PHOTO/STEVE TERRILL

Vinonuovo.it - pubblicato il 09/04/14

«La lotta si compì nel comprendere che cosa realmente significava il perdono. Ma quando l'ho capito, è stato il più grande dono della mia vita».

di Chiara Bertoglio

Immaginate un bagno. Immaginatelo più piccolo. Ancora più piccolo. Un metro per un metro e mezzo, una doccia ed un water. Immaginate di trovarvi chiusi dentro. Non per qualche minuto, non per qualche ora. Per novantun giorni consecutivi. E non da soli: con altre otto persone.

Immaginate di dover dividere con le altre otto persone, oltre al ridottissimo spazio disponibile, anche un solo piatto di fagioli al giorno. Immaginate di non dover fare nessun rumore, né parlare con le altre persone. Di non potervi cambiare d’abito per novantun giorni. Di non poter dormire sdraiati.

Immaginate di vivere quei novantun giorni senza telefono, email, televisione. Senza nessun contatto con il mondo esterno. Senza nessuna notizia dei vostri cari. Immaginate di fare tutto ciò non per una scommessa, un gioco o un reality di dubbio gusto, ma per salvarvi la vita.

Immaginate di essere una ragazza di ventidue anni, che condivide il nascondiglio con delle perfette estranee. Silenziose per forza, bloccate dal terrore e dall’angoscia. Con una sola colpa, giudicata degna di morte: essere alte. Sì, perché è opinione comune, benché imprecisa, che le persone di etnia tutsi siano generalmente più alte di quelle hutu. E in Ruanda, questo equivaleva alla sentenza capitale.

Immaculée Ilibagiza non ha neanche quarant’anni. È una donna bellissima, elegante, raffinata, con un sorriso pieno di serenità e di luce. Anche gli occhi trasmettono gioia, pace ed una straordinaria forza d’animo. Vi si scorge, però, anche la traccia lasciata da un orrore che non ha fine.

Quanto ricordiamo e sappiamo di ciò che accadde, poco più di quindici anni fa, nella terra di Immaculée? Un milione di persone (proviamo ad immaginarlo), un milione di esseri umani, uomini, donne, bambini, vennero trucidati nello spazio di tre settimane. E, se ci sono modi più o meno "umani" per compiere i genocidi, di certo questo fu uno dei più atroci: non bombe sganciate asetticamente da aerei, ma assassinii veri e propri, compiuti uno per uno, non da soldati ma dai vicini di casa, gente comune con cui fino a ieri si rideva e si scherzava. Uccisi a colpi di machete.

In ciò che sta a monte del genocidio, la nostra Europa ha delle pesantissime responsabilità. È il colonialismo ad aver attizzato la rivalità etnica e tribale, mettendo dapprima al potere i tutsi, numericamente minoritari, per creare una classe dirigente sottomessa ai coloni, da cui riceveva protezione e legittimazione. Chiaramente, la maggioranza hutuprese a mal tollerare questa discriminazione, ulteriormente rinfocolata dal cambio di campo degli Europei, che dopo un po’ presero ad appoggiarli.

Quando venne assassinato il presidente del Ruanda, il 7 aprile 1994, la colpa venne fatta ricadere sui tutsi, attribuendo il misfatto ad una loro vendetta o a un tentativo di riconquistare il potere, ora detenuto daglihutu. La popolazione ruandese, abituata ad avere piena fiducia nelle istituzioni ed educata ad un’obbedienza acritica, credette senza problemi ai comunicati che la radio continuava a diramare, incitando la gente a sterminare i tutsi. Si invitavano gli onesti cittadini a compiere la loro buona azione quotidiana uccidendo qualche nemico, bambini compresi, allo slogan: "un piccolo serpente è sempre un serpente".

Immaculée si trovava a casa dall’Università per le vacanze di Pasqua. Fino ad allora era stata una studentessa modello, che era riuscita ad ottenere i risultati più prestigiosi nonostante le discriminazioni che una società maschilista poneva nei confronti delle donne. La sua famiglia ne era giustamente orgogliosa. E si trattava di una famiglia meravigliosa. I genitori, entrambi insegnanti, erano persone di una fede profondissima, radicata nel quotidiano ed alimentata da una preghiera fedele e continua. Avevano quattro figli, di cui tre maschi, Aimable, Damascène e Vianney, ed Immaculée. Una famiglia unitissima, che rappresentava un modello ed un punto di riferimento per l’intero villaggio.

Allo scatenarsi del delirio e dell’inferno, migliaia di tutsi si raggrupparono attorno alla loro casa, per avere consigli, protezione, aiuto. Il padre di Immaculée, fidandosi a sua volta, ingenuamente, delle istituzioni, si rivolse loro, con il solo risultato di attrarre l’attenzione su quell’assembramento di "serpenti". Si avvicinava il massacro: si sentivano già storie atroci, con stermini perpetrati persino nelle chiese, in cui la gente si rifugiava sperando nel rispetto dovuto al luogo sacro. Giungevano invece le squadre della morte, adeguatamente imbottite di droghe ed alcolici, ed uccidevano metodicamente, senza pietà.

I genitori di Immaculée intimarono a lei ed al fratello più piccolo, Vianney, di cercare rifugio presso il pastore protestante, un hutu moderato. Questi offrì alla ragazza ed alle donne che erano andate con lei il minuscolo bagno, che divenne il loro bunker per tutta la durata dell’eccidio.

Nell’intervistare Immaculée – lo ammetto – provo un senso profondo di inadeguatezza, ed un rispetto infinito. Come si fa a porre domande, a scandagliare un vissuto altrui che è così smisuratamente doloroso e – fortunatamente – alieno dalla nostra esperienza? Ma è la semplicità stessa di Immaculée, franca e serena, che mi aiuta a superare questa specie di afasia. Mi sono preparata leggendo la sua storia in un libro bellissimo, che meriterebbe di essere letto da chiunque, diffuso nelle scuole e fatto conoscere a parenti ed amici: Viva per raccontare, scritto dalla stessa Immaculée Ilibagiza, pubblicato da Tea edizioni nel 2009.

Nel libro, Immaculée racconta che ogni tanto avvenivano incursioni e perquisizioni nella casa del pastore: ore interminabili, ritmate dai canti feroci delle bande armate. Chiedo ad Immaculée se e come è possibile che, nel mezzo di un inferno fatto di dolore fisico, psicologico e spirituale, vivendo in un bagno, uno possa anche avere una forte esperienza di Dio, sentirsi amato e protetto. "Sì, ammette Immaculée, in quel bagno, in quella situazione terribile, non potevamo uscire, né potevamo ricevere alcun aiuto dall’esterno. C’era solo Dio. Passavo tutto il tempo a pregare. Pensavo: se Dio è onnipotente, Egli può aiutarmi, Egli può salvarmi. Se non fosse stato per quello, sarei semplicemente uscita e mi sarei fatta ammazzare".

La sua vita era piena di preghiera: recitava ininterrottamente il rosario, sulla corona che suo padre le aveva affidata nel loro ultimo incontro. Eppure, su una frase si bloccava sempre: "Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori". Immaculée sapeva in cuor suo di non pregare con onestà quelle parole.
Due momenti di quei novanta giorni furono particolarmente atroci. Uno fu quando, dal di fuori del suo nascondiglio, sentì dei passanti commentare la spietata esecuzione, piena di macabro sarcasmo, di un giovane che non poteva essere altri che il suo amatissimo fratello Damascène. Immaculée intuiva anche la verità: dei cinque membri della su famiglia, solo lei ed il fratello Aimable, che studiava in Senegal, sarebbero sopravvissuti all’eccidio. Un altro momento orribile fu quando, una sera, udirono le grida straziate di una mamma che veniva assassinata, e poi, per tutta la notte, il pianto sempre più debole del suo neonato, che morì sul far del mattino.

Immaculée era piena di odio e risentimento, e continuamente cercava di immagi
nare come avrebbe potuto vendicarsi, non appena fosse uscita di lì. "Era tutto orribile, tremendo, racconta, ma una notte sognai Gesù, e da allora nulla fu uguale a prima. Rischiavamo di essere scoperte da un momento all’altro, ma dal momento in cui realizzai che Dio è onnipotente, tutto prese ad andar bene. La cosa meravigliosa della nostra fede è sapere che c’è il Cielo. Se i miei cari erano morti, voleva dire che erano tutti in Cielo. E quando cominci a pensare al Cielo, gioia, dolore, sofferenza, niente significa più molto. La vita sulla terra diventa piccolissima, quando si pensa a cosa c’è in Cielo. Ed è l’eternità. Quella gioia fu immensa. Noi siamo fatti per cose molto più grandi di quelle che ci sono qui".

In quel momento realizzò il significato e l’importanza del perdono. Le chiedo se perdonare è stato per lei solo uno sforzo immenso oppure qualcosa di positivo anche per lei stessa. "Non posso dirti quanto è stato, ed è tuttora, meraviglioso ed appagante, mi risponde. Quando ero arrabbiata, pensavo di avere buone ragioni per esserlo. La lotta si compì nel capire, nel comprendere cosa realmente significava il perdono. Ma quando l’ho capito, è stato il più grande dono della mia vita. È stato come deporre un immenso peso dalle mie spalle, sentirmi libera. Mi sembrava di non essere più in un bagno, ma circondata di fiori. Ho cominciato a pensare al futuro: avrò una vita bella, mi affiderò a Dio, lavorerò… sono stata incomparabilmente più fiduciosa nel mio futuro di quanto fossi mai stata quando ero arrabbiata. Ho iniziato a vedere tantissime possibilità, molte più di quante me ne potessi immaginare prima. Anche se nessuno degli assassini avesse mai saputo che li perdonavo, per me stessa è stato un dono".

Ma Immaculée non si accontenta dei propositi. Non appena vengono liberati il Ruanda e lei stessa, Immaculée torna al suo villaggio, nella cui prigione si trova l’assassino di sua mamma e di suo fratello Damascène. Si avvicina a lui, e semplicemente gli dice: "Ti perdono". Come è stato possibile, Immaculée?
"È stato possibile non nel senso che l’abbia trovato facile, ma solo perché in quel bagno io ho potuto realmente avvicinarmi a Dio, e quando ho compreso la realtà del Cielo non mi ci è voluto molto per scegliere di vivere in Dio. Anche prima io credevo in Lui, ma il mondo era per me molto più forte. Poi, invece, quando incontrai l’assassino, per me semplicemente non aveva più senso avercela con lui. Lo vidi, ed ai miei occhi era qualcuno che avrebbe potuto compiere così tanto bene, ma aveva scelto la strada sbagliata, finendo in quel modo. Era certamente necessario fare verità sull’accaduto, per me stessa e per lui: io ho voluto però offrirgli una possibilità, per cercare di capire cosa aveva fatto".

In Ruanda, era la gente normale a trasformarsi in un branco di assassini spietati e crudeli. Chiedo ad Immaculée se e come la consapevolezza della concreta possibilità che ciascuno ha di compiere il male ha cambiato il suo modo di relazionarsi con il prossimo, non solo nel contesto del genocidio ruandese, ma anche negli anni seguenti. "In realtà, risponde, è assai curioso. L’esperienza che ho fatto mi ha portato a vedere negli altri tutta la loro capacità di bene, anche in quelli che compiono il male. In un certo senso, ho più fede negli altri, e nel potere della preghiera di realizzare il bene per qualcuno. Amo più di prima. Certo, le persone possono incitare gli altri a compiere il male, come i capobanda in Ruanda; ma nello stesso tempo credo più di prima nella bontà degli uomini. Per quelli che compiono il male possiamo pregare, offrir loro vicinanza, mostrando che ci fidiamo di loro".

Ciò che ha vissuto ha insegnato ad Immaculée anche molte altre cose, per esempio a non aver alcun tipo di pregiudizio verso le altre persone, ma a conoscerle semplicemente nella verità del loro rapporto con Dio e con il mondo. "In Ruanda, diventava chiaro che nulla importa se non il modo in cui ogni persona si pone davanti a Dio. Non era una questione di sesso, di professione, di fede: c’erano donne che ammazzavano e donne che proteggevano, sacerdoti, pastori, musulmani… ognuno doveva compiere la sua scelta davanti a Dio. Questo mi ha aiutata molto a vedere la gente così com’è, e non per la posizione che riveste".

Il messaggio e la missione di Immaculée per gli anni futuri sono, di conseguenza, chiarissimi: "Penso che una delle mie missioni nella vita sia di aiutare la gente a trovare questo perdono, a vedere le cose in prospettiva. Io vorrei gridare al mondo che siamo fatti per amarci a vicenda ed amare Dio. C’è qualcosa dentro di me che mi porta a voler dire a tutti: amatevi, abbiate compassione gli uni per gli altri, non siate egoisti perché l’egoismo non paga. Io cerco di portare la mia testimonianza non solo per far conoscere e ricordare ciò che è accaduto in Ruanda, ma anche per venire in aiuto alle persone che mi ascoltano, al di là della loro provenienza. Quando parlo, spesso gli ascoltatori vengono poi a ringraziarmi con le lacrime agli occhi, confessando che odiavano qualcuno, o che avevano qualcosa di irrisolto nella loro vita, e che ora riuscivano a sistemare le cose nel loro ordine, a ridimensionarle. Il Ruanda è finito nel genocidio perché la gente si è dimenticata l’amore vicendevole: io cerco di ricordarlo a tutti, e questo è ciò che più mi rende felice. Se la gente avesse saputo amarsi, catastrofi come questa non sarebbero successe. Nell’odio non ci sono vincitori. Così, io spero che la mia storia potrà servire far comprendere e vivere questo messaggio…".

Verrebbe da dire ad Immaculée che, se si può valutare l’efficacia della sua testimonianza dall’impressione che produce in chiunque l’ascolti, me compresa… ci sta riuscendo perfettamente.

Qui l’originale

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