Non so che cosa si siano appena detti, là per terra. Di una cosa però sono sicura: in quei minuti lui si è lasciato amare
Giovedì sera, chiesa gremita di giovani per la lectio vicariale col vescovo. Momento dell’adorazione eucaristica. Dopo pochi minuti, dal banco davanti a me si alza improvvisamente un ragazzo. Andrea (nome di fantasia, ma la storia è verissima) percorre tutta la navata, camminando deciso verso l’altare. Ha gli occhi di tutti – sacerdoti e giovani – puntati su di sé: tanti punti interrogativi sui loro volti, ma non se ne cura affatto. Arriva proprio di fronte al Santissimo, e lì si inginocchia. Composto – quasi il pavimento fosse di gommapiuma, e raccolto – come se niente e nessuno fosse lì, oltre a loro due. Andrea ha disarmato tutti. I volti si fanno commossi; qualcuno non riesce a trattenere una lacrima. I sacerdoti sembrano volergli dire, benedicendolo con lo sguardo: "Che lezione ci stai dando, Andrea!".
Dopo un lungo momento torna al suo banco, da quegli amici dell’oratorio che non lo perdono di vista nemmeno un attimo. Andrea è un ragazzo down. Mi sposto di qualche centimetro perché stia più comodo sulla panca. Lo nota, mi mette una mano sulla spalla con un affetto e un’attenzione indescrivibili. In quella carezza, ne sono certa, c’è quella di Cristo. Non so che cosa si siano appena detti, là per terra. Di una cosa però sono sicura: in quei minuti, Andrea si è lasciato amare, si è lasciato trasfigurare. Proprio quello che ci stavamo dimenticando di fare noi, presi solo da tanti ragionamenti. Ci voleva Andrea per capire cosa significhi davvero pregare.