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La sostituzione di Giuda

Giotto, le Baiser de Judas Giotto – it

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Dimensione Speranza - pubblicato il 07/04/14

Tra Ascensione e Pentecoste è la prima iniziativa del gruppo dei discepoli dopo la dipartita del loro Signore

di Caterina Ostinelli

L’episodio di cui ci dobbiamo occupare appare come la prima iniziativa del gruppo dei discepoli, dopo la dipartita del loro Signore. Esso infatti si inserisce tra l’avvenimento dell’ Ascensione e quello della Pentecoste, cioè nel momento di passaggio dal tempo di Gesù a quello della Chiesa.

Ad una prima lettura non si può far a meno di notare una duplice sproporzione narrativa. La prima riguarda il rapporto tra parola e azione. Luca relega l’azione degli apostoli in due miseri versetti (v. 23: presentazione dei candidati; v. 26: elezione di Mattia), mentre riporta per intero il lungo discorso introduttivo di Pietro alla comunità (vv. 15-22) e le parole della preghiera corale recitata prima dell’elezione (vv. 24-25). L’impressione è che l’evangelista non sia tanto interessato a riferire il fatto in sé (che presuppone probabilmente conosciuto), quanto piuttosto a rilevare il significato che gli apostoli stessi hanno dato a questo primo loro intervento ecclesiale. La seconda sproporzione riguarda l’attenzione riservata ai personaggi coinvolti nell’evento, ovvero Giuda, l’apostolo sostituito, e Mattia, l’apostolo sostituto. Ora, mentre del candidato eletto si dice poco o nulla, oltre al nome (tra l’altro di lui non si parlerà più in tutto il resto del libro), di Giuda si parla diffusamente. L’interesse dell’ autore appare chiaro: egli non intende presentare ai suoi lettori il nuovo apostolo, ma interpretare correttamente la vicenda di Giuda e il problematico vuoto lasciato dall’ apostolo all’ interno del gruppo dei Dodici.

1. Il primo atto apostolico

Nel contesto narrativo di At 1-2 la sostituzione di Giuda appare come qualcosa di originale e inaspettato, entro un quadro di avvenimenti già predisposti dal Maestro Gesù.

Nell’episodio dell’ Ascensione con cui apre il suo secondo libro, Luca ricorda l’ordine dato da Gesù ai suoi discepoli di non allontanarsi da Gerusalemme e di attendere l’adempimento della promessa del Padre, ovvero il dono dello Spirito Santo (l,4); subito dopo, l’evangelista riferisce come gli apostoli abbiano messo in pratica il comando di Gesù, tornando tutti a Gerusalemme e radunandosi in preghiera nella stanza superiore (1,12-14). In terza battuta ci aspetteremmo l’evento della Pentecoste che compie quanto preannunciato, e, invece, prima di questo racconto (2,1-13), ecco a sorpresa l’elezione di Mattia. Essa è introdotta da un lungo discorso di Pietro che ha proprio lo scopo di giustificare alla comunità – ma anche ai lettori degli Atti – la «necessità» dell’iniziativa (vv. 16-22).

L’intervento dell’apostolo è costruito attorno all’espressione verbale greca «deî» (v. 16 «era necessario»; v. 21 «bisogna» o «è necessario») che costituisce la chiave di lettura dei due avvenimenti a cui si fa riferimento: il dramma di Giuda che si è appena compiuto e l’elezione di un nuovo apostolo quale impegno immediato della comunità. Nel linguaggio biblico questa formula ha un preciso significato teologico: indica che la realtà di cui si sta parlando fa parte del piano salvifico divino rivelato profeticamente nelle Scritture.

Per Pietro, dunque, la Scrittura mette in grado la comunità di capire nella fede il dramma di Giuda, ma nello stesso tempo la impegna a coprire il vuoto lasciato dall’apostolo traditore. Dalle parole del primo apostolo la sostituzione di Giuda appare come un atto «dovuto» da parte della comunità, che vuole agire in conformità alla volontà di Dio.

Al discorso di Pietro, sempre secondo il racconto di Luca, segue una pronta risposta della comunità che, senza dire una parola, subito si mette in movimento per proporre i candidati idonei (v. 23).


Questo sviluppo della narrazione lascia emergere due dati importanti a proposito dell’ evento:

1) la sostituzione di Giuda è un’iniziativa apostolica che non ha come supporto un preciso comando di Gesù: se infatti una qualche parola del Maestro ci fosse stata Luca l’avrebbe sicuramente ricordata accanto all’altro comando e Pietro non avrebbe avuto bisogno di motivare scritturisticamente l’evento;

2) le ragioni di questa importante decisione della chiesa apostolica sono da rintracciare nel discorso introduttorio di Pietro: esso, infatti, fu talmente convincente da non suscitare alcuna obiezione.

È proprio da qui che partiremo per capire il senso dell’avvenimento.

2. La vicenda di Giuda alla luce della Scrittura

L’argomentazione di Pietro a favore della sostituzione di Giuda prende avvio da una lettura «teologica» del dramma vissuto da questo personaggio: «Era necessario che si compisse ciò che nella Scrittura fu predetto riguardo a Giuda … » (v. 16).

A proposito dell’apostolo traditore desta una certa sorpresa il racconto della sua morte (con relativa connessione al «campo di sangue»), in quanto testimonia una versione diversa da quella più conosciuta riportata dal primo vangelo (Mt 27,3-8). Mentre Matteo parla di suicidio, Luca, per bocca di Pietro, descrive la morte di Giuda come una disgrazia; mentre per Matteo il «campo di sangue» deriva il nome dal «prezzo di sangue» con cui è stato pagato, per gli Atti esso si chiama così a causa del sangue di Giuda di cui si è imbevuto per la rovinosa caduta di lui.

In questa sede, più che determinare il grado di storicità delle due tradizioni, mi sembra utile far notare che la versione di Atti (= caduta a capofitto di Giuda e disseminazione delle sue viscere per terra) ha una forte familiarità con un brano del libro della Sapienza, che parla della morte prematura del giusto, causata dall’odio degli uomini: «Le folle vedranno la fine del saggio, ma non capiranno ciò che Dio ha deciso a suo riguardo, né in vista di che cosa il Signore l’ha posto al sicuro. Vedranno e disprezzeranno, ma il Signore li deriderà. Alla fine diventeranno un cadavere spregevole, oggetto di scherno fra i morti per sempre. Dio infatti li precipiterà muti, a capofitto, e li schianterà dalle fondamenta: saranno del tutto rovinati, si troveranno tra dolori e il loro ricordo perirà» (Sap 4,17-19).

Il dato ci fa supporre che Pietro voglia suggerire subito, prima ancora di citarla esplicitamente, la Scrittura come chiave interpretativa della figura di Giuda. La disgrazia che ha colpito l’apostolo traditore non è dovuta al caso: essa si inserisce nel quadro dell’agire di Dio a difesa dei giusti. Giuda si è trovato a condividere la sorte preannunciata per gli empi perché, alla loro stregua, ha tradito l’«Uomo giusto» che Dio gli aveva posto accanto.

La stretta connessione tra il racconto della morte di Giuda e il brano di Sap 4 pone però un interrogativo: perché Pietro, dopo aver raccontato la morte di Giuda in perfetta sintonia con Sap 4,19, non cita questo testo e preferisce ad esso un breve passo dei Salmi, a prima vista molto meno significativo?

Per dare risposta a questa domanda è importante analizzare il testo scritturistico riportato da Pietro.

La prima particolarità da rilevare a questo proposito è che i versi citati non appartengono allo stesso salmo, ma a due distinti, il 69 e il 109[i]. L’accostamento dei due versetti salmici non è, però, arbitrario, come facilmente si può dimostrare: prima di tutto entrambi i salmi fanno parte del gruppo delle «Lamentazioni del giusto perseguitato»; in secondo luogo i versi scelti sono estrapolati da una analoga serie di «imprecazioni» contro il/i persecutore/i da cui i salmi sono in parte caratterizzati; in terzo luogo lo stico del salmo 69 è molto simile nel contenuto alla strofa immediatamente seguente del verso citato del Sal 109: «Pochi siano i suoi giorni e il suo posto l’occupi un altro. I suoi figli rimangano orfani e vedova sua moglie. Vadano raminghi i suoi figli mendicando, siano espulsi dalle loro case in rovina» (Sal 109,8-10).


Il Sal 69, inoltre, è continuamente richiamato nei racconti della passione di Gesù, e ciò ci autorizza a pensare che era utilizzato dalla chiesa primitiva come chiave di lettura della vicenda pasquale del Maestro.

Sulla base di questi dati possiamo affermare che:

1) Pietro, pur non citando Sap 4, ci conduce per altra via allo stesso quadro interpretativo che vede contrapposta la sorte del giusto perseguitato a quella dell’empio persecutore.

2) L’apostolo sceglie di citare il Sal 69 perché, essendo già il testo privilegiato per riconoscere in Cristo il Giusto sofferente, si prestava facilmente, al di là di precisi riferimenti, a considerare Giuda nel numero degli empi persecutori, verso i quali si imprecava una esemplare condanna divina. Attraverso il richiamo a questo salmo, la morte tragica di Giuda, indipendentemente dalla sua volontà (non è un suicidio!), appare in tutta la sua verità: è l’altro volto dell’agire di Dio, il quale nel rendere giustizia al giusto sofferente (risurrezione di Cristo) non può non giudicare l’empio persecutore (morte di Giuda). Il mistero della salvezza comprende anche il momento drammatico della condanna di tutto ciò che vi si oppone.

3) Del Sal 69 Pietro cita il v. 26 che è un’imprecazione contro l’empio perché la sua casa diventi un luogo deserto e disabitato; con questa scelta specifica egli raggiunge un duplice scopo: da un parte collega il Sal 69 alla vicenda di Giuda attraverso l’allusione all’Akeldamà, il campo di sangue diventato tomba di Giuda e conosciuto come uno dei posti più malfamati della città (cf nota al v. 18, Bibbia di Gerusalemme, p. 2325); dall’altra prepara la citazione del v. 8 del Sal 109, che si giustifica proprio per il fatto che è tratta da una imprecazione simile a quella appena riportata.

La scelta di Pietro ora appare chiara: descrivendo la morte di Giuda nei termini di una caduta a capofitto evoca il testo di Sap 4, ma non lo cita, perché il suo scopo va al di là del semplice intento di mostrare nella morte di Giuda il compimento delle Scritture.

Egli costruisce, piuttosto, una citazione salmica complessa, per poter ricondurre nello stesso quadro interpretativo scritturistico (= i testi del giusto sofferente) sia il destino di Giuda che il dovere di sostituirlo nel suo ministero.

3. «Il suo incarico lo prenda un altro»

Per Pietro, dunque, nel momento in cui si arriva a comprendere la vicenda di Giuda alla luce delle Scritture sul Giusto sofferente, bisogna porsi il problema del vuoto da lui lasciato. Ma qual è questo vuoto?

L’apostolo stesso si era già preoccupato di richiamarlo alla memoria parlando di Giuda: «Egli era stato nel nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero» (v. 17). L’incarico che Giuda lascia vacante è quello condiviso dal gruppo dei Dodici. Questo dato è molto importante perché mette in evidenza la vera «necessità» della sostituzione di Giuda: questa, infatti, non consiste nel coprire un ruolo che altrimenti verrebbe meno, ma nel ricomporre il numero degli apostoli, chiamati a svolgere lo stesso ministero.

Che questo sia lo scopo dell’iniziativa è confermato anche da altre parti del testo:

– v. 22: il sostituto di Giuda, dice Pietro, avrà il compito di essere «testimone, insieme a noi, della sua risurrezione»; ciò significa appunto che non deve assumere un incarico specifico, ma condividere il ministero degli altri apostoli;

– v. 26: il racconto si conclude dicendo che l’eletto «fu associato agli undici apostoli»; con questa espressione si sottolinea l’effetto dell’elezione, che non è quello di avere un uomo in più per testimoniare Cristo dove gli altri non arrivano, ma ricreare il gruppo dei Dodici apostoli, all’interno di una già abbastanza vasta comunità di discepoli testimoni (120 fratelli, v. 15).


La sostituzione di Giuda, dunque, non è determinata da un problema pratico, ma dalla precisa volontà di tornare ad avere Dodici apostoli.

Il fatto che la comunità di Gerusalemme arrivi ad assumersi in proprio la responsabilità di ricomporre il nucleo originario degli apostoli manifesta quanto la chiesa primitiva avesse chiara coscienza del valore simbolico del numero scelto da Gesù per costruire il gruppo dei suoi.

In effetti con questa iniziativa la prima Chiesa è convinta di interpretare la volontà del maestro, secondo la quale Gesù, scegliendo dodici uomini tra l’ampio numero dei suoi discepoli, avrebbe voluto eleggere, più che delle singole e precise persone, un gruppo simbolicamente rappresentativo.[ii]

Non è un caso che Luca negli Atti descriva il momento di questa elezione della prima Chiesa (vv. 23-25) allo stesso modo con cui aveva descritto nel vangelo l’istituzione dei Dodici da parte del Maestro (Lc 6,13). Se in quella occasione Gesù aveva chiamato a sé i discepoli e aveva scelto tra questi dodici persone, perché costituissero un gruppo a parte, in questa, similmente, la comunità presenta (mette di fronte a tutti) due discepoli del Maestro, e invoca il Signore Gesù, perché attraverso la sorte, scelga tra questi uno, da associare agli Undici.[iii]

La preghiera e il richiamo alla sorte già ricordato a proposito di Giuda (v. 17) presentano l’elezione di Mattia come naturale prolungamento dell’istituzione dei Dodici operata da Gesù: se è il gruppo dei Dodici che Gesù ha istituito, esso non deve venir meno, per la defezione di un apostolo. Un altro deve prendere il suo posto, perché il progetto di Gesù sui Dodici possa compiersi. Chi non risponde ad una chiamata non provoca il fallimento del piano divino, ma solo la sua attuazione in modalità nuove. La comunità di Gerusalemme, predisponendo la sostituzione di Giuda, non fa altro che rispondere all’appello del suo Signore, perché il ministero dei Dodici da Lui istituito possa continuare ed essere portato a termine.

4. Il ministero dei Dodici

Il testo, dunque, mette fortemente in rilievo, più che il ministero del singolo apostolo, il valore dell’apostolato di questo gruppo, legato al simbolismo del numero dodici voluto da Gesù. I vangeli dovrebbero aiutarci a comprendere il senso di questa scelta del Maestro.

Matteo appare il più esplicito nel dichiarare le intenzioni simboliche di Gesù rispetto al gruppo. Alla domanda di Pietro: «Ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito: che cosa ne otterremo?», il Maestro risponde: «In verità vi dico: voi che mi avete seguito, nella nuova creazione, quando il Figlio dell’Uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici (solo Matteo!) troni a giudicare le dodici tribù di Israele» (Mt 19,27-28; cf anche Lc 22,28-30). Gli apostoli sono dodici quante le tribù che formano il popolo di Israele; la loro sequela («voi che mi avete seguito») si compie quando siederanno a giudicare le dodici tribù di Israele.

I dodici apostoli rappresentano simbolicamente il nuovo popolo di Dio che si raduna attorno a Gesù, mettendosi alla sua sequela. Attraverso la loro accoglienza di Gesù e quindi del Regno di Dio riscattano l’infedeltà delle dodici tribù che Dio aveva scelto come suo popolo testimone nel mondo. Con l’elezione dei Dodici da parte di Gesù, Dio pone le basi per ricreare il suo popolo e superare così l’infedeltà antica.

È interessante notare che Gesù affida al gruppo questo ministero simbolico non solo in riferimento alla sua esperienza terrena, ma anche a quella futura, oltre la Pasqua: «quando il Figlio dell’Uomo sarà seduto sul trono della sua gloria … » (Mt 19,28), interpretando così la profezia messianica di Daniele che, parlando del giudizio escatologico del Messia su Israele, prevedeva accanto a lui sul trono dodici consiglieri prescelti per condividerne il giudizio (Dn 7,9-10).


Secondo questo testo, dunque, in cui Gesù associa gli apostoli al suo ruolo di giudice escatologico, la funzione dei Dodici non si esaurisce accanto al Gesù storico e tantomeno è già compiuta quando Giuda abbandona i compagni tradendo il Maestro. Se valgono le parole di Gesù, il gruppo deve essere ripristinato quanto prima, affinché gli apostoli possano portare a termine il loro ministero, sedendosi su dodici troni per giudicare le tribù di Israele.

Indirettamente Matteo conferma la testimonianza di Luca su una chiesa apostolica convinta di dover ricostituire il gruppo dei Dodici, per essere fedele alla volontà di Dio rivelata in Cristo.

5. Mattia e poi nessun altro

Se l’elezione di Mattia è comprensibile nell’ottica divina a partire dal simbolismo numerico del gruppo apostolico voluto da Gesù, viene spontanea la domanda sul perché in seguito, venendo meno qualcuno del gruppo, questi non sia più stato sostituito.

Al cap. 12, per esempio, gli Atti testimoniano, all’interno delle violente persecuzioni subite dalla Chiesa di Gerusalemme, il martirio dell’apostolo Giacomo, fratello di Giovanni (12,2), ma non accennano ad un’altra elezione per ricostruire il gruppo dei Dodici. Perché se è stato così importante e indispensabile la ricomposizione del numero all’inizio, non lo è più stata in seguito?

La risposta è da ricercare ancora nel valore simbolico del gruppo dei Dodici. Nella volontà di Gesù essi dovevano sostituire le dodici tribù di Israele raccogliendo quella eredità di popolo eletto di Dio, lasciata vacante per la continua infedeltà all’alleanza. La sostituzione nasce dal tradimento. Allo stesso modo, cioè per colmare un tradimento, la comunità ritiene di dover sostituire Giuda ricostituendo il nucleo originario del nuovo popolo di Dio.

Con la morte di Giacomo, sebbene ancora una volta il gruppo si riduca a Undici perdendo un’unità, il problema non si pone, perché questo apostolo, a differenza di Giuda, non ha tradito, ma ha dato testimonianza, col suo martirio, di grande fedeltà a Dio e al suo mistero di salvezza.

In questa circostanza, quindi, la missione dei Dodici non viene meno, ma entra nella sua fase conclusiva: Giacomo è il primo ad associarsi alla gloria di Gesù e a sedersi accanto a Lui sul trono del giudizio. E dopo di lui tutti gli altri lo raggiungeranno, chi morendo martire, chi rimanendo fedele a Cristo in una sequela attiva e feconda fino alla morte naturale.

Dopo Mattia non ci saranno altri apostoli associati al gruppo, perché quei Dodici, con la loro fedele testimonianza di gruppo hanno compiuto la missione per cui erano stati istituiti e cioè quella di gettare le fondamenta della Chiesa.[iv]

(da Parole di vita, n.1, 1998)


[i] La frase del Sal 69, tra l’altro, è stata modificata dal plurale («la loro dimora diventi deserta … ») al singolare («la sua dimora … »), per adattarla sia a Giuda che all’altro versetto salmico.

[ii] A prova di ciò si potrebbe portare il fatto che i Sinottici ricordano, dei Dodici, appena il nome e non si sentono in dovere di approfondire la loro identità. Dal momento della loro istituzione, poi, essi diventano protagonisti accanto a Gesù solo come gruppo (salvo qualche rara eccezione) e spesso sono significativamente denominati con l’appellativo: «I Dodici».

[iii] Sulla corrispondenza letteraria di Lc 6,13 con At 1,23-24, vedi B. PAPA, Atti degli apostoli, I, Bologna 1981, p. 62.

[iv] Ben diverso è il caso dell’ «apostolo» Paolo, che non è mai stato associato al gruppo dei Dodici. Il suo titolo di apostolo, infatti, è da ricondurre al senso primitivo e tradizionale del termine («missionario itinerante») e non all’accettazione data da Luca di appartenere al collegio dei Dodici.

qui l’articolo originale

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