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Rimsha, una storia di speranza nella “Terra dei puri”

Pakistani Christian’s protest in Lahore – it

AFP PHOTO/Arif ALI

PAKISTAN, Lahore : Pakistani Christian's protest in Lahore on September 24, 2013, against the suicide bombing of a church in Peshawar. A devastating double suicide attack on a church in northwest Pakistan has triggered fears among the country's beleaguered Christian community that they will be targeted in a fresh wave of Islamist violence. AFP PHOTO/Arif ALI

Edizioni San Paolo - pubblicato il 05/04/14

In Pakistan come in altri Paesi islamici l'appartenenza religiosa e il genere sessuale possono ancora fare la differenza tra la vita e la morte

di Michela Coricelli

Sobborgo di Umara Jaffar, settore G-12, periferia di Islamabad. Nelle baracche di questo affollato slum, a ridosso del vicino Meherabad, vive una comunità di cristiani poverissimi. Le abitazioni si aggrappano l'una all'altra in un dedalo di viuzze polverose.

E' il 16 agosto 2012: Rimsha gioca per la strada. Dà fuoco a un mucchietto di spazzatura. Nessuno, apparentemente, ci fa caso. Ma contro di lei si accende una furia crudele, che la catapulta nell'occhio del ciclone. Nessun riguardo per la sua infanzia, per la sua innocenza, per le sue condizioni fisiche e psicologiche. E' un capro espiatorio perfetto per il fanatismo a caccia di nemici.

Rimsha Masih è una ragazzina cristiana di più o meno 14 anni. La sua età non viene accertata immediatamente. In un primo momento il suo ritardo mentale impedisce di stabilire con esattezza quanti anni abbia. Vive con la sua famiglia nel sobborgo, come tanti altri fedeli della stessa religione. Minoranza.

L'imam della moschea di Meherabad, Khalid Jadoon Chishti, la accusa di aver bruciato – insieme all'immondizia – una decina di pagine di un compendio del Corano, il Noorami Qaida: una sorta di testo per i ragazzi, propedeutico allo studio del libro sacro dell'islam. L'accusa è la solita, drammatica: blasfemia.

La vicenda appare subito inverosimile, tanto più che Rimsha non sa leggere: come potrebbe essere tacciata di blasfemia, se non sapeva quel che stava bruciando? Come avrebbe potuto riconoscere le pagine del Corano, in mezzo ad altri fogli inceneriti? Ci sono però tre testimoni che sostengono le accuse dell'imam contro Rimsha. La miccia fa ardere la rabbia.

La folla si inferocisce facilmente quando sente la parola “blasfemia”: minacciano un incendio del quartiere cristiano, picchiano Rimsha, che rischia di essere linciata. Interviene la polizia, che la “prende in custodia”. La ragazzina viene portata a Rawalpindi, nel Punjab, in un carcere per adulti. “Dite al giudice che non ho fatto niente”, continua a ripetere la vittima dell'ingiustizia, terrorizzata. “Ho paura che qualcuno possa fare del male alla mia famiglia”.

Nessuno la ascolta. Passerà ventiquattro giorni in cella. Lontana dai suoi. Sola. Nel frattempo centinaia di famiglie fuggono dal ghetto cristiano. Non sopportano più le continue minacce: alcune torneranno a casa, più tardi. Ma in tanti abbandonano definitivamente il quartiere.

Una commissione medica della polizia pachistana, successivamente, conferma quello che la famiglia aveva ripetuto da sempre: Rimsha è affetta da sindrome di Down. E non ha ancora 14 anni. I due elementi diventano la chiave che permetterà di uscire dalla prigione, anche se la sua vicenda giudiziaria sarà lunga.

La fuga di Rimsha

Il giudice ordina la scarcerazione e la bambina viene trasferita in elicottero dall'istituto di massima sicurezza di Adiala fino alla caserma femminile nel quartier generale della polizia. Vi resta per qualche ora insieme alla famiglia, poi tutti verranno portati in un luogo segreto per ragioni di sicurezza. I Masih sono obbligati a nascondersi in un luogo sconosciuto: nonostante l'iter legale sia concluso, restano nel mirino dell'odio fanatico. Le immagini del trasferimento di Rimsha in elicottero risultano offensive. Fanno male alla coscienza. La fuga di questa adolescente – obbligata dalle stesse autorità a scappare in un posto lontano, abbastanza lontano dalla furia dell'intolleranza – è troppo dolorosa. Negli scatti iniziali la giovane è avvolta quasi interamente in uno scialle verde militare, sua unica difesa. A bordo dell'apparecchio, Rimsha si toglie la sciarpa dal capo e guarda, con cautela, fuori: c'è un mucchio di gente, ma finora nessuno è riuscito a proteggerla veramente. E' stata minacciata di morte. Lei dice, candidamente, di “essere spaventata”: Ha “paura di essere uccisa”: E' solo un'adolescente e non ha mai conosciuto nulla al di fuori dei cosiddetti settori G-11 e G-12 di Islamabad.

L'accusatore è accusato

La vera svolta, in questa storia, riguarda l'accusatore. L'imam che ha puntato il dito contro Rimsha viene arrestato per calunnia. Contro di lui ci sono diversi testimoni: ha fabbricato false prove contro la bambina. E' stato lui ad inserire nel mucchio di spazzatura con cui giocava, nella discarica, alcune pagine del compendio del Corano. E' stato confermato dagli stessi testimoni che in un primo momento lo avevano aiutato e che poi hanno ritrattato. Decisiva è stata la dichiarazione scritta di un religioso, Hafiz Mohammad Zubair, che ha apertamente accusato l'imam Jadoon di avere aggiunto pagine del Corano, portategli da un abitante musulmano del villaggio di Mehrabadi, un tale Amaad, a quelle incenerite.

La manipolazione delle prove da parte dell'imam rovescia l'accusa: lui stesso, in un primo momento, rischia la condanna per blasfemia. “Chiunque dovrebbe riflettere con attenzione prima di accusare gli altri”, ha detto il giudice Rehman, sottolineando la gravità dell'abuso della legge.

A novembre dello stesso anno, finalmente, Rimsha, viene prosciolta. E' la prima volta nella storia del Pakistan: “Questa sentenza costituirà un precedente, e sarà molto utile per altri casi di blasfemia” dichiara con entusiasmo l'avvocato cattolico Tahir Naveed Chaury all'agenzia Fides. E aggiunge: Oggi è un bel giorno. Non solo per i cristiani, ma per tutto il Paese”. Ha ragione: Rimsha ha illuminato la speranza di tanti, mentre ancora era in prigione. Si è aperto uno spiraglio. Meno di due mesi dopo, la sentenza di un giudice della città di Bahawalpur proscioglie dall'accusa di blasfemia un altro cristiano: Barkat Massih, 56 anni, viene rilasciato dopo 16 mesi di ingiusta detenzione. Addetto alla manutenzione di un luogo di preghiera, nell'ottobre del 2011 era stato coinvolto in un litigio: due musulmani gli avevano chiesto una copia elle chiavi per entrare, ma lui aveva rifiutato. Dopo averlo insultato e minacciato, lo avevano denunciato alla polizia per insulti al profeta Maometto. E' stato lasciato andare: il fatto non sussiste. Barkat Masih è rimasto in cella per quasi un anno e mezzo. Ora è libero. Anche grazie a Rimsha.

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ESTRATTO DA “ASIA BIBI, MALALA E LE ALTRE” (EDIZIONI SAN PAOLO)

Tags:
libertà religiosa
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