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Da Buenos Aires a Santa Marta: ecco “Il Vaticano secondo Francesco”

Our Anticlerical Pope – it

Marcin Mazur/Catholic NewsUK

Emanuele D'Onofrio - Aleteia - pubblicato il 03/04/14

È in libreria il nuovo libro di Massimo Franco che esplora, nelle sue tante facce, quel prisma che è il pontificato del “primo papa glocale”

“Qui c’è posto per trecento persone!”. In queste parole, che il neoeletto Francesco pronunciò mentre Tarcisio Bertone nelle vesti di Camerlengo insieme a pochi altri gli mostravano l’Appartamento del Palazzo Apostolico, c’era già la sintesi del suo programma. Nella sua scelta di rimanere a vivere nella stanza 201 di Santa Marta, suo domicilio durante il conclave, c’era il gesto simbolico di una rottura con il modello di papato che eravamo abituati a conoscere.

Massimo Franco, editorialista del Corriere della Sera e scrittore, parte da qui per raccontare quel cambiamento che in Vaticano non si vuole etichettare come “rivoluzione”, ma che visto da fuori, tanto gli somiglia. La Chiesa cattolica è stata il cuore degli interessi del Franco saggista: se nei suoi ultimi due libri prima di questo ne aveva raccontato quella che definiva una “crisi”, oggi in Il Vaticano secondo Francesco (Mondadori, 2014) si dedica con appassionata ed analitica curiosità a sviscerare i tanti aspetti di un pontificato che egli considera una cesura con il passato. Noi di Aleteia l’abbiamo intervistato.

Da dove nasce la grande “novità” di Francesco?

Franco: Questa capacità di sorprendere in modo “rivoluzionario” nasce dalle dimissioni di Benedetto XVI. Senza quel gesto traumatico ed epocale non si spiega quello che è successo dopo. È vero che oggi la Chiesa guida un movimento di rinnovamento delle leadership a livello di intero Occidente, ma lo fa perché ha subito, e vissuto, e reagito a un trauma come quello delle dimissioni di un papa dopo 700 anni. Quindi c’è un elemento di grande rottura che spiega la grande “rottura” portata poi da Francesco, altrimenti quello che è successo non avrebbe una radice giustificabile.

Nel gesto di Benedetto XVI c’era già in nuce questo cambiamento?

Franco: Io ho l’impressione che sia stato un gesto, qualcuno dice “di grande coraggio”, io direi di coraggio disperato, o di “disperazione coraggiosa”, perché non è un gesto nel quale si possa riconoscere la capacità di prevedere quello che sarebbe accaduto dopo. Era semplicemente un “basta!” rispetto all’impossibilità, e forse anche all’incapacità di guidare la Chiesa in un momento in cui invece di andare avanti veniva risucchiata da scontri interni molto brutti, con un rischio serissimo di tramonto e di declino.

Come si arriva al gesto, semplicissimo ed eclatante, di scegliere di vivere a Santa Marta?

Franco: In realtà Francesco Santa Marta l’aveva simbolicamente scelta quando era stato a Buenos Aires. Io sono stato a Buenos Aires per indagare le sue radici, e ho visto che anche lì lui aveva rinunciato alla residenza da arcivescovo della città, e si era trasferito in un appartamentino nel palazzo accanto alla Cattedrale. Quindi anche lì c’era stata una “prima Santa Marta”. La cosa interessante è che ricercando nell’Archivio Segreto Vaticano ho trovato che Santa Marta anticamente era un lazzaretto per i colerosi, perché alla fine dell’800 Roma temeva l’arrivo di un’epidemia di colera. Questa poi non c’è stata, ma Santa Marta fin da allora è diventata il simbolo di un rifugio per i sofferenti. E poiché il papa dice che la Chiesa è una sorta di “ospedale da campo dopo una battaglia”, nessun simbolismo è più efficace di quello. Perché questo simbolismo è possibile? Perché in realtà noi abbiamo una Chiesa, un Vaticano che emergono feriti dalla battaglia che stavano perdendo. Ha perso il modello europeo italiano di papato. Quindi in qualche modo questo è il modello “sudamericano” che conquista il Vaticano di fronte al fallimento del precedente.

Se noi pensiamo al Fondo Monetario Internazionale, quest’istituzione finanzia i Paesi che sono vicini al fallimento economico. Nel caso del Vaticano noi abbiamo avuto un Vaticano quasi sull’orlo del fallimento morale, e poi abbiamo vissuto una specie di “fondo morale (o religioso) internazionale”, che è stato l’ultimo Conclave, che ha commissariato il Vaticano romano per rilanciarlo e sanarlo. Quindi in qualche modo noi vediamo un’America Latina, storicamente terra di missione, che questa volta diventa terra missionaria che torna in Europa per evangelizzarla, perché l’Europa non ce la fa da sola.

Nel libro si parla molto dei rapporti con Obama e con Putin. Come giudica l’incontro recente di papa Francesco con il presidente statunitense?

Franco: Io credo che nell’incontro tra il papa e Obama si sia vista soprattutto l’ansia di Obama di piacere al papa, molto più che il contrario. Questo nasce dal fatto che noi abbiamo un mito di Francesco che è all’apice, mentre il mito di Obama è molto appannato, quindi Obama aveva molto più bisogno di questo incontro. Secondo, io mi sono un po’ sorpreso per il modo in cui il Vaticano ha sottolineato gli elementi di distanza da Obama: questo è avvenuto perché risente dei rapporti che ci sono tra i democratici americani e la Conferenza episcopale cattolica americana. Ci sono forti tensioni, la Chiesa cattolica americana diffida del Partito Democratico e diffida anche di Obama per la sua agenda di politica interna su temi come aborto, matrimonio omosessuale ed eutanasia. Sulla Siria noi abbiamo visto un papa che ha scelto Putin semplicemente perché l’Occidente in Siria non c’è, e siccome il problema del papa è quello di proteggere le minoranze cristiane, l’unica realtà, anche armata e potente che lì difende le minoranze cristiane, sia ortodosse che cattoliche, è Putin: quindi il papa ha fatto una scelta in qualche modo obbligata.

E quando Putin ha occupato la Crimea?

Franco: Lì s’è visto un atteggiamento del papa molto più cauto. Perché? Perché il papa anche lì ha il problema di non provocare persecuzioni contro i cattolici da parte degli ortodossi nella zona filorussa. Inoltre il papa non vuole rovinare con la questione dell’Ucraina i rapporti con Putin in Medio Oriente. Credo tra l’altro ci sia un’esigenza più generale: il Vaticano non vuole che si ricrei un clima da guerra fredda, perché in quel clima non riesce ad esercitare come vuole il suo cosiddetto “soft power”, cioè il suo potere di persuasione morale. In più, il Vaticano negli ultimi anni ha sofferto l’identificazione in alcune parti del mondo – tanto per capirsi, quelle islamiche – con un Occidente che purtroppo negli ultimi anni ha esportato solo guerre.

Chi è il cardinale Pietro Parolin?

Franco: Parolin è il simbolo del ritorno della diplomazia alla Segreteria di Stato Vaticana, ma è anche il simbolo di un ridimensionamento del ruolo politico del Segretario di Stato vaticano cresciuto per responsabilità di Tarcisio Bertone, soprattutto dell’accentramento del potere che ha coinciso con il suo incarico alla Segreteria di Stato. Parolin è un grande professionista, uno che conosce benissimo tutti i dossier internazionali, e che quindi riporta nel suo alveo naturale, quello del cardinale Casaroli, tanto per intendersi, una Segreteria di Stato che il Conclave e gli episcopati mondiali hanno percepito come eccessivamente potente e soprattutto eccessivamente debordante rispetto ai suoi compiti storici.

Come si prospetta il lavoro del C8, la commissione voluta da Francesco per riformare il Vaticano?

Franco: Il C8 è il simbolo di una politica estera vaticana che si affida non più agli italiani, ma ad esponenti dell’episcopato di tutto il mondo. Quindi è il frutto di questo Conclave anti-italiano. Vuol dire una condivisione delle scelte, o comunque sia, di condivisione delle scelte, perché poi le scelte rimangono nelle mani esclusive del papa, e vuol dire anche sottolineare che ci vuole più collegialità nell’elaborazione delle strategie. Ma questo credo che vada interpretato in funzione anti-Curia e anti-italiana. Tra le forze conservatrici e il C8 vedo uno scontro di fatto. Che poi il papa sia sempre ben informato delle cose che succedono, e quindi sia aiutato sempre nel modo migliore a compiere le scelte giuste, ho qualche dubbio. Ho la sensazione che il papa non abbia una cerchia stretta di collaboratori con una conoscenza vera e profonda della Curia romana, di Roma e anche dell'Italia, per cui il papa rischia a volte di essere fuorviato.

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