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Il linguaggio dei ‘sensi’: opportunità e limiti

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Berkeley T. Compton / Flickr / CC

Dimensione Speranza - pubblicato il 02/04/14

Contro l'illusione di catturare l'esperienza di Dio nelle reti del soggettivismo, occorre considerare i sensi non solo come il luogo della suprema occasione, ma pure come il luogo della quotidiana tentazione

di Paolo Tomatis

«Accende lumen sensibus»:la preghiera liturgica non lascia dubbi sul coinvolgimento dei sensi nell’esperienza spirituale dell’incontro con Dio. La riflessione teologica lo ha sempre intuito, ma per descrivere i dinamismi dell’esperienza spirituale ha preferito affidarsi alle sponde sicure della razionalità, diffidando del linguaggio dei sensi, ritenuto ambiguo e ingannevole. Dopo secoli di sospetto, sembra che sia arrivata l’ora di reintegrare la sensibilità nell’esperienza e nella sapienza della fede. Contro la deriva razionalista, si invoca una liturgia più sensibile alle ragioni del corpo, più capace di coinvolgere e avvolgere la totalità delle dimensioni dell’umano: i sensi non sono più visti come ostacolo pericoloso, ma come la «suprema occasione» (C. Campo) del rivelarsi dello Spirito. Al tempo stesso, non sfugge la necessità di vigilare perché la sensibilità dell’esperienza liturgica non scada in un sensualismo fuorviante. Contro l’illusione di catturare l’esperienza di Dio nelle reti del soggettivismo, occorre considerare i sensi non solo come il luogo della suprema occasione, ma pure come il luogo della quotidiana tentazione. Tra i due opposti di un razionalismo anestetico e di un sensualismo estetizzante, l’estetica liturgica – ovvero la disciplina che approfondisce il senso della liturgia a partire dai suoi dinamismi sensibili – è chiamata a raccogliere la sfida di pensare a una liturgia insieme sensibile e spirituale: una liturgia dei ‘sensi spirituali’ che integra la sensibilità in una forma improntata a un’estetica della carità evangelica ed ecclesiale (1).

1. I sensi come occasione

Molta strada è stata percorsa dalla filosofia e dalle scienze umane per rivalutare i sensi del corpo. Luogo di scambio tra la realtà esteriore e l’interiorità soggettiva, i sensi sono molto di più che uno strumento necessario ma da oltrepassare al più presto, per giungere alla conoscenza intellettiva: i sensi costituiscono gli organi della nostra relazione con il mondo e pure con noi stessi, dal momento che percepire ciò che avviene al di fuori di noi è sempre percepirsi nell’atto di percepire. Diversa, infatti, è la percezione della rosa da parte dell’innamorato e del botanico, dell’artista e dell’uomo distratto: il contesto della percezione, insieme alla condizione soggettiva di colui che percepisce, sono determinanti per definire il senso di ciò che si sente; in una espressione sintetica, si potrebbe dire che ciò che è al di là di noi non è mai senza di noi. Il rimando alla relazione originaria che lega il corpo e lo spirito, il mondo e l’io, è di fondamentale importanza per comprendere la dimensione sensibile dell’esperienza spirituale: lo attesta con chiarezza il prologo giovanneo («E il verbo si è fatto carne… e noi abbiamo visto la sua gloria»: Gv 1,14.18), insieme all’esordio della prima lettera di Giovanni («Quello che le nostre mani hanno toccato…»: 1 Gv 1,3). In virtù della creazione in Cristo (dato antropologico) e dell’incarnazione di Cristo (dato teologico), i sensi del corpo costituiscono non soltanto il luogo di accesso all’esperienza del mondo, ma pure il luogo di accesso all’esperienza di Dio. Di tale esperienza, proprio la liturgia rappresenta il momento sorgivo e culminante, come afferma il concilio Vaticano II (SC 10), sulla scia della grande tradizione patristica: in essa, attraverso la varietà dei segni sensibili (per signa sensibilia: SC 7), si manifesta e si attualizza il dono della salvezza di Cristo. L’apertura della fede a un’estetica dell’ascoltare e del vedere, del gustare e dell’entrare in contatto, non rappresenta dunque né un privilegio dei mistici, eletti ‘toccati’ dalla grazia divina, né una consolazione dei semplici, bisognosi di toccare e vedere per credere: essa è costitutiva dell’esperienza liturgica, chiamata ‘in qualche modo’ (precisamente nel modo proprio della liturgia) a mostrare/vedere la gloria del Dio invisibile, a dire/ascoltare la Parola rivelata, a entrare con tutti i sensi nel cuore del mistero trinitario. Tutto questo è possibile in virtù della singolare capacità dei sensi di far entrare in una relazione immediata e concreta con l’altro da sé: dire sensi significa dire ‘corpo’, dunque presenza viva e scambio reciproco; dire sensi significa dire ‘azione’ che coinvolge e ‘manifestazione’ che sollecita una risposta di riconoscimento; dire sensi significa dire ‘sensibilità’, vale a dire attenzione ed emozione; dire sensi significa dire ‘sinestesia’, ovvero possibilità di entrare in contatto con l’Altro da noi con tutto noi stessi, rispettandone al contempo la trascendenza e l’imprendibilità; dire sensi significa dire ‘alleanza’, perché non c’è sensazione che non sia una comunione; il fatto di vedere alcune cose e non percepirne altre; il fatto di non ascoltare tutto ciò che entra nel nostro campo uditivo, ci conferma della verità per cui vedere è rispondere, ascoltare è corrispondere, e non si dà percezione liturgica senza iniziazione a un dato modo di percepire. Anche il limite, che è costitutivo della sensazione (la visione è prospettiva e parziale; il nostro olfatto è inferiore a quello degli altri animali) e che si accentua nelle esperienze della malattia, della disabilità, dell’incedere dell’età, non costituisce per se stesso un ostacolo alla percezione liturgica: al contrario, proprio l’esperienza dello scarto tra la percezione limitata della realtà e la realtà che in essa si rivela può manifestare l’eccedenza (cioè il sovrappiù) del dono trascendente e della sua recezione. La ricerca dì una liturgia più ‘contattiva’ e più sensibile alle ragioni del corpo e del cuore è espressione di una nuova fase della riforma liturgica, più attenta alla dimensione verticale e mistica della partecipazione attiva (partecipare come essere coinvolti nel mistero), e più consapevole dell’importanza della forma rituale in ordine a tale partecipazione. Contro l’atteggiamento ‘informale’, che per paura del formalismo non si preoccupa più delle forme, si presta nuovamente attenzione alle risorse del rito in ordine non solo alla comunicazione, ma alla comunione con il mistero. Perché la liturgia possa costituire la suprema occasione dell’incontro con Cristo, non è sufficiente che ci sia l’assemblea, non bastano le parole delle preghiere e il canovaccio del rito. È necessario affinare un’arte di celebrare, al contempo sinestetica (che attiva tutti i codici e coinvolge tutti i sensi) e performativa (che trasforma la percezione e fa entrare in relazione), perché tutto concorra al bene di coloro che amano Dio: la visione composta e lo sguardo orientato; il modo di proclamare la Parola e le preghiere; la musica e il canto; lo spazio architettonico e lo stile dei gesti; il profumo e lo stesso gusto. In questa prospettiva, il senso della vita non appare come un contenuto mentale che si colloca al di là della vita, ma come una relazione affidabile che, nella concretezza della vita, dischiude il senso ai sensi. L’esigenza estetica di una liturgia più epifanica è, evidentemente, al rischio del corpo: la promessa di un contatto immediato è insidiata dalla tentazione antropocentrica, che va alla ricerca della performance spirituale, allontanandosi da quella gratuità disinteressata che nella liturgia cerca solamente il Signore e l’edificazione della comunità. Nella stagione postmoderna delle gratificazioni istantanee è necessario vigilare perché i sensi del cor
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anziché essere finestre aperte verso l’Invisibile, non si riducano a funzionare come uno specchio che non riflette altro che se stessi.

2. I sensi come tentazione 

L’ambivalenza con cui le nostre assemblee avvertono insieme il fascino e il timore di dare voce alla dimensione sensibile della liturgia non è nuova: l’esercizio della vigilanza nei confronti dei sensi appare come un dato costante nella storia della spiritualità cristiana, sin dalla predicazione dell’apostolo Paolo che esorta i cristiani di Corinto a fare tutto con moderazione, intelligenza e sobrietà, perché il nostro «non è un Dio di disordine, ma di pace» (1 Cor 14,33). Un’estetica della calma, della modestia e della misura domina il pensiero e la prassi delle assemblee liturgiche dei primi secoli: da qui la titubanza con cui elementi come l’incenso, i fiori, le immagini, gli strumenti musicali furono progressivamente introdotti nella liturgia, nel timore di cedere all’idolatria pagana o più semplicemente di essere distratti dalla bellezza sensibile nel cammino verso le verità dello spirito. Che in tale atteggiamento si annidasse il pregiudizio platonico è ammissibile: emblematica è in tal senso l’estetica di Agostino che da una parte esalta la bellezza che viene dai sensi (descritti come messaggeri che rimandano al Creatore per mezzo del loro ministerium) e il giusto piacere che ne deriva, dall’altra invita a diffidare dei sensi («foresta piena di insidie e di tentazioni») e a sottomettere ogni piacere sensibile all’uso che se ne fa, dal momento che tale piacere tende inevitabilmente verso il basso, preferendo le creature al creatore, i doni di Dio al Dio dei doni (2). E tuttavia, come mostra proprio la fine fenomenologia dei sensi di Agostino, è ultimamente nel corpo stesso, nei dinamismi della sensibilità che si radica quell’ambivalenza di fondo per cui la carne è insieme il luogo della trasparenza dello Spirito e della sua opacità. Solo ricevendo la loro forma spirituale, sensi e sentimenti diventano il luogo epifanico del dirsi e del donarsi dell’esperienza dell’incontro con il Dio trinitario. La percezione di tale ambivalenza assume nelle nostre assemblee liturgiche i tratti di due derive opposte: l’intellettualismo anestetico e l’antropocentrismo sensualistico. Il primo è figlio della modernità secolarizzata e risente di un persistente pregiudizio antirituale, per cui tutto ciò che ha a che fare con l’estetico è considerato fuorviante rispetto all’autentico spirito della fede cristiana, distraente da ciò che veramente conta: il vangelo predicato e vissuto. La conseguenza di tale atteggiamento è rilevante: la varietà e la ricchezza dei linguaggi sensibili cedono il passo al predominio del codice verbale che enfatizza il livello mentale della comprensione dei significati e dei valori sul livello corporeo del contatto e della relazione.

Sul fronte opposto, ecco una liturgia ansiosamente alla ricerca dei sensi perduti dalla modernità secolarizzata. Nella cultura dell’immagine e dell’emozione, anche la liturgia reclama i diritti della sensibilità, non senza cedere alle lusinghe della spettacolarizzazione mediatica, più preoccupata di far stare bene (to feel good, to look good) che di disporre sensi e sentimenti all’azione dello Spirito di Cristo (3). In questo quadro, si possono segnalare alcuni pericoli ricorrenti: i tentativi ingenui di garantire, tramite i mezzi audiovisivi, una visibilità pressoché assoluta, come se una maggiore visione fosse indispensabile per ‘vedere’ lo Spirito all’opera; l’espansione indebita degli elementi canoro-musicali mirati a incantare (orchestre e cori imponenti, atmosfere New Age…); il sovraccarico emotivo che tende ad annullare ogni distanza tra il sé e l’altro; l’invenzione continua di nuovi segni espressivi della fede e dei valori della comunità; l’attenzione esageratamente minuziosa rivolta agli elementi cerimoniali, che tradisce una certa autoreferenzialità; l’espansione del gesto rituale, tipica (anche se non esclusiva) di certi filoni delle spiritualità carismatiche che non ritengono sufficiente la forma rituale prescritta, al fine di raggiungere gli effetti spirituali desiderati.

3. La liturgia, luogo della sensibilità redenta

Tra le opposte derive di una liturgia che non si prende più cura delle forme e di una liturgia che si sofferma sulle forme in modo ingenuo e ‘carnale’ (secondo l’opposizione paolina tra carne e spirito), si gioca la sfida di una liturgia dei ‘sensi spirituali’: sensi inabitati dallo Spirito di Cristo, che attiva la varietà e la ricchezza dei codici sensibili e li integra in una scena armonica, capace di lasciar trasparire l’ordine evangelico della carità; sensi abitati dalla parola di Dio che orienta azioni e percezioni alla rivelazione del senso cristologia); sensi che sanno abitare il limite, nel pudore che accompagna l’ardore con cui la sensibilità si sporge, oltre se stessa, sull’eccedente rivelazione del Dio trinitario. Forma, senso, stile: ecco i capisaldi di un’estetica liturgica dei sensi spirituali, sospesi tra cielo e terra, a pregustare il compimento, desiderandolo e invocandolo.

1) Per un approfondimento più sistematico delle tesi qui accennate, cfr. P. Tomatis, Accende lumen sensibus. La liturgia e i sensi del corpo, C.L.V, – Edizioni liturgiche, Roma 2010.

2) Cfr. Agostino, Le Confessioni, Città Nuova, Roma 19915, X, 6; 30-35; IV, 15-18.

3) Cfr. al proposito, M. Lacroix, Il culto dell’emozione, Vita e Pensiero, Milano 2002.

(da Rivista di Pastorale Liturgica, n. 1, 2011, pp. 30-36)

qui l’articolo originale

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