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Il deserto, un maestro di spiritualità

Deserto – it

Michele Westmorland

Deserto

padre Renato Zilio - pubblicato il 01/04/14

Attraversare il Sahara è come camminare nudi della propria umanità

“Vai, che sarà bellissima!”, mi fa Jean-Pierre, priore dei monaci di Tibhirine, sicuro di sé. Sarà vero. L’esperienza di una settimana nel deserto, in pieno Sahara, nella casba di Ibrahim, grande amico del monastero, sarà indimenticabile. «È per pregare Dio», mi raccomanda di dire loro, al telefono. Formula magica. Dopo ore su un bus sgangherato fino a Erfoud, ai bordi del deserto, mi vengono a prendere come una baraka, una benedizione. E dopo circa una trentina di chilometri sulla sabbia, eccomi in una splendida casba. Mi accompagnano nella stanza più bella, tranquillissima, con tappeti e cuscini in ogni dove, perfino nella sala da bagno. «Tutto per facilitare la vostra preghiera», sostengono convinti. Sei immerso in un paesaggio grandioso, che ti spoglia e ti riempie, allo stesso tempo. E ti fa camminare, nudo della tua umanità, in mezzo a un universo minerale spettacolare. Vastissimo ed emozionante. È il mondo prima della nascita dell’uomo: il Sahara.

Camminare è sentire solo il rumore dei tuoi passi sotto un cielo immenso. Una calotta gigantesca ti sovrasta da un capo all’altro della terra. Un amplissimo orizzonte ti dà il senso di uno spazio e una libertà infiniti. Il deserto ti lavora come uomo cosmico, autentico, spoglio delle sue inutilità. Solo un po’ d’acqua e la Bibbia. Torno a casa solo al tramonto. Camminare è apertura al mondo: invita all’umiltà, a cogliere avidamente l’istante e lo spazio attraverso il corpo. Avanzare, così, traccia un cammino non solo nello spazio, ma dentro di sé. Mentre il deserto pulisce e affina l’anima come una lima. Ti dà la nozione di immensità, del tempo e dell’eternità.

Il deserto fa emergere tutti i tuoi idoli e ti illumina sul senso vero di idolo e del suo contrario, l’icona. Comprendi come l’idolo concentra tutte le forze, l’attenzione, il potere: è autoreferenziale, per eccellenza. L’icona, al contrario, rinvia ad altro, a qualcosa di più grande. Non è che un raggio della luce del Divino. E, così, ti fai idolo quando vivi un protagonismo eccessivo o un attivismo esagerato. Ti metti al centro dell’ammirazione o dell’attività. Ci si arroga ogni forza, ci si identifica quasi con Dio. Mentre in un uomo che sa farsi icona avverti una profondità, quasi una tridimensionalità che impressiona: lui, te e Dio accanto a lui. Ha una visione davanti a sé, vede il mondo che sarà domani, sa captare il futuro che sta nascendo. E sa diventare una forza mobilizzatrice per sé e per gli altri. Essere icona è parlare di qualcosa di più grande e di più bello che trascende… Accentrare in te è invece farsi idolo.

Dopo ore di cammino, incontro dei bambini berberi. Si trovano proprio sul costone di un promontorio, da cui mi guardavano lungamente. Nomadi. Dietro di loro, ora intravedo un accampamento poverissimo, qualche capra, nere tende berbere sparse disordinatamente… Così crescono questi abitanti: in una mano tengono la miseria quotidiana e nell’altra, dono di Allah, una visione del mondo che ti toglie il respiro. Straordinaria bellezza! E penso quanto sia importante educare i nostri giovani a visioni grandiose, radicali e coraggiose: solo così sapranno portare le difficoltà, le sorprese o le contraddizioni di un’esistenza. A fine settimana ritorno al monastero. Dopo il canto finale, chiudo il libro, sul retro della copertina appaiono cinque grandi, brevi frasi: è il senso dell’invio, uscendo da questa chiesa monastica di trappisti. Siate umili. Restate disponibili. Siate gioiosi. Prendete il tempo. Pregate insieme. Pare un piccolo testamento della spiritualità di questi monaci cristiani in terra d’islam. Null’altro il mondo si attende, per vivere.

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