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Allarme povertà a Torino

Poverty

© Public Domain

Chiara Santomiero - Aleteia - pubblicato il 27/03/14

Il protrarsi della crisi economica fa venire allo scoperto le difficoltà di tante famiglie rimaste senza risorse proprie

A Torino aumentano i poveri e il numero delle persone in difficoltà. Secondo la Caritas, un quarto della popolazione dell’area metropolitana, circa trecento mila persone, “è in affanno” mentre le parrocchie e le altre strutture ecclesiali, nonostante il peso crescente di una “situazione oggettivamente pesante” continuano a offrire risposte e aiuti. Nei primi tre mesi dell’anno le persone che si sono rivolte al centro di ascolto cittadino “Le due tuniche” sono state 1070 mentre in tutto il 2013 erano state 1892, che significa un aumento del 26%. Le difficoltà riguardano in primo luogo il lavoro e la casa. Oltre 45 mila famiglie nell’area metropolitana hanno ricevuto la “borsa della spesa” dalle parrocchie. Di tutto questo si parlerà sabato 29 marzo nel convegno annuale della Caritas diocesana ma Aleteia ha chiesto al direttore della Caritas di Torino, Pierluigi Dovis, di condividere alcune riflessioni sulla situazione che si trovano ad affrontare.

Si tratta di dati rilevanti: una situazione inedita per un territorio come quello di Torino?

Dovis: Occorre precisare che siamo di fronte un bacino di circa 100 mila persone davvero in condizione di povertà, mentre più o meno il doppio rilevano maggiori difficoltà rispetto a 4-5 anni fa per portare avanti il consueto menage di vita a causa del sopravvenire di eventi che hanno comportato la riduzione dello stipendio: il passaggio dal tempo pieno al part-time per contrazione aziendale oppure l’ingresso in cassa integrazione quando non si è stati licenziati e non si riesce a trovare un nuovo posto di lavoro. Queste persone e le loro famiglie sono potenzialmente più vicine alla povertà di quanto accadesse in passato. Tuttavia non si tratta di una situazione completamente nuova. L’area metropolitana di Torino – che va oltre la sola città di Torino – è ormai da circa quindici anni in una condizione di debolezza strutturale. Prima le ripetute crisi della Fiat, poi quelle dei territori limitrofi – penso alle difficoltà della Olivetti che ha colpito la zona del canavese – hanno indebolito progressivamente il territorio. E le nuove possibilità economiche che sono sorte, come la valorizzazione turistica o l’high tech, hanno subito i colpi della crisi economica arrivata nel 2008. Le persone più fragili sono figlie di questo percorso. La novità è che nell’ultimo anno e mezzo, più o meno, molte più persone sono state costrette a rendere palese le proprie difficoltà e a chieder aiuto perché le risorse messe da parte che avevano consentito loro di affrontare la situazione con le proprie forze e andare avanti, dopo cinque anni di crisi, sono state completamente erose. Così capita che in uno dei nostri Centri di ascolto (ne abbiamo 91) ci sia stato un aumento della povertà nel primo trimestre del 2014, rispetto al 2013, del 26%. Forse c’era anche prima ma adesso è diventata visibile, perché non ci sono più paracadute. Tutto ciò ci dice che gli effetti della crisi sono strutturali e destinati ad avere effetto negli anni a venire e ci spinge a trovare soluzioni per invertire la rotta così da non ampliare il disagio.

Colpisce, nella vostra analisi, che le persone siano passate, con il protrarsi della crisi economica, dalla depressione all’insofferenza…

Dovis: In effetti, tre o quattro anni fa, i cosiddetti “nuovi poveri” soffrivano di forme piccole e grandi di depressione. Arrivavano dagli operatori dei Centri d’ascolto e spesso si mettevano a piangere perché provavano un sentimento di fallimento, di vergogna nei confronti dei propri figli, di negazione del futuro. Adesso notiamo maggiormente una certa esasperazione perché le situazioni in cinque anni non sono migliorate nonostante le persone sentano dalla Tv che ormai si è arrivati alla fine del tunnel o perché, nonostante abbiano frequentato un corso di riqualificazione, non sono riusciti  a trovare un altro lavoro. A volte tendono a trattare i volontari quasi come dei funzionari del servizio pubblico che non danno quanto dovuto. E’ la spia di un disagio forte che se non viene incanalato rischia di esplodere.

Di fronte a questa situazione, la Chiesa non si stanca di provare a dare risposte: è così?

Dovis: La Chiesa di Torino ha una lunga tradizione di attenzione ai poveri e agli ammalati, fa parte un po’ del nostro Dna, però è vero che ha scelto di scommettere sulla moltiplicazione dei servizi sul territorio: d’altra parte se non si investe in tempo di crisi, quando si dovrebbe farlo? E così, mentre gli enti pubblici per mancanze di risorse o tagliano le spese per il sociale o alzano i criteri per l’accesso ai servizi, le persone sanno che nelle parrocchie, nelle associazioni ecclesiali, nei centri di ascolto della Caritas, l’accesso è possibile senza sbarramenti. Se poi riescano a trovare sempre risposte, questo è un altro paio di maniche, perché le nostre risorse non sono quelle del servizio pubblico e la domanda è crescente. Tuttavia c’è la scelta di fondo di non chiuderci a causa della paura. L’arcivescovo, mons. Cesare Nosiglia, ha coinvolto le varie espressioni ecclesiali – la Caritas, gli uffici per la pastorale della salute, dei migranti, del sociale, le grandi organizzazioni di assistenza come il Gruppo Abele, il Sermig, il Volontariato vincenziano – in un percorso di riflessione concreta, l’”Agorà del sociale”, che punti a mettere insieme al meglio competenze e servizi, ma anche a definire quali priorità e quali prospettive culturali siamo in grado di offrire alla società. Per la prossima estate dovremmo essere in grado di presentare le prime proposte concrete.

A proposito di cultura, non c’è solo l’aiuto  della “borsa della spesa”, ma anche i biglietti per il Teatro Regio e le visite guidate ai musei della città…

Dovis: In questi anni abbiamo capito dai poveri che la carità non può fermarsi agli aiuti materiali ma deve coinvolgere la pienezza dell’uomo. Al primo posto c’è la relazione tra persone e pensare servizi a misura d’uomo. Le persone, inoltre, hanno bisogno di aiuto per rileggere la propria esperienza e scoprire la capacità di resilienza, cioè di reagire alle difficoltà. Infine c’è la necessità di un benessere ad ampio raggio e l’arte e la cultura rispondono alle esigenze più profonde dell’uomo. Grazie al progetto avviato con la Sovrintendenza del Teatro Regio e il sindaco Piero Fassino, a 800 persone vulnerabili è stata data l’opportunità di usufruire di spettacoli teatrali e 60 hanno partecipato a visite guidate ai musei. La cultura è una dimensione fondamentale per tenere alta la propria dignità. L’esito di questi tentativi è stato così rilevante che abbiamo capito come sia importante continuare. Ci sono stati casi come quello di due persone che per andare a teatro sono uscite di casa dopo otto mesi che non trovavano la forza per farlo o di un uomo senza fissa dimora che ha voluto stirarsi la camicia da solo per vedere lo spettacolo che rappresentano una grande vittoria. La responsabilità significa crescita e aiutare le persone a crescere è l’autentica carità e solidarietà.

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