La povertà è cambiata nell'ultimo decennio, in alcuni casi già nell'ultimo secolo, ma è un cambiamento che non ha raggiunto tutti
di Gustavo Gutierrez
Vorrei presentarvi alcune riflessioni sulla sfida che rappresenta la povertà nel mondo di oggi per l’annuncio del Vangelo, cioè per la missione centrale della Chiesa. Potremmo dire che la povertà è un segno dei tempi: a volte tendiamo a dare ai segni dei tempi solo una connotazione positiva, ma ve ne è anche una negativa, ed è per questo che si tratta di discernere tali segni, individuando quanto è in linea con quello che la Rivelazione ci dice dell’amore di Dio e quanto gli si oppone. Vorrei ispirarmi a una frase di un grande missionario, Bartolomé de Las Casas, che diceva, pensando agli indios, cioè ai più insignificanti: del più piccolo e del più dimenticato Dio ha una memoria molto viva e fresca.
Presenterò le mie considerazioni in tre punti:
1) la sfida che rappresenta la povertà oggi per l’annuncio della fede cristiana e il tentativo di risposta della Chiesa negli ultimi anni, a partire da un contesto latinoamericano, attraverso l’opzione preferenziale per i poveri;
2) le diverse dimensioni di questa opzione;
3) l’evangelizzazione nel mondo di oggi.
1) La sfida della povertà all’annuncio della fede
La povertà si presenta come un fatto di massa, qualcuno ha detto come un fenomeno di civiltà. Per molto tempo i poveri erano considerati come casi individuali, ed erano inoltre fisicamente vicini. Oggi – attraverso la rivoluzione tecnologica, la globalizzazione, l’economia neoliberista, la crescita della popolazione nel mondo, la nuova presenza di vecchie religioni dell’umanità – possiamo dire che la povertà si presenta come un fatto universale enorme e profondo. E sorge allora una domanda: come dire al povero, oggi, che Dio lo ama? La vita quotidiana del povero sembra essere precisamente la negazione dell’amore. Come dire ai poveri non solo che Dio li ama, ma che, partendo dalla rivelazione biblica, Dio li ama in maniera preferenziale, prioritaria? A questa domanda cerca di rispondere quella che abbiamo formulato come opzione preferenziale per il povero (pur nella consapevolezza che tale domanda è molto più ampia della nostra capacità di risposta). L’espressione deriva da una prima riflessione condotta in America Latina negli anni ’60 e nasce come tale tra Medellín e Puebla. Esaminiamola parola per parola.
Povero, povertà. Parlando dell’opzione per il povero è chiaro che ci riferiamo al povero reale, perché il povero spirituale è un’altra cosa. Povertà spirituale è sinonimo di infanzia spirituale, che è l’affidarsi di un credente a Dio, il porre la propria vita nelle sue mani. È l’ideale di un cristiano: i poveri spirituali sono i santi. Quando parliamo di opzione per il povero parliamo invece del povero reale. Sarebbe facile optare per i santi, sono così pochi! Stiamo parlando invece di milioni di persone. Ma bisogna essere un povero spirituale per fare un’opzione per il povero reale.
La povertà è cambiata nell’ultimo decennio, in alcuni casi già nell’ultimo secolo, ma è un cambiamento che non ha raggiunto tutti. Ricorderò solo due cambiamenti importanti nella nostra percezione della povertà. Il primo è che la povertà è un fatto complesso. La parola povero evoca immediatamente l’aspetto economico, che infatti è un aspetto della povertà. Ma il povero nella Bibbia non è solo quello che non dispone di risorse economiche. Nella Bibbia, ed anche in questa riflessione teologica, povero è colui che è insignificante. E si può essere insignificanti, non persone, per ragioni economiche, certamente, ma anche per ragioni culturali, razziali, per il colore della pelle, per ragioni di genere (la condizione femminile è di sicuro una condizione di insignificanza). Molte volte, poi, tutti questi aspetti o alcuni di essi si riuniscono in una sola persona. Tutte queste persone sono quelle che chiamiamo "insignificanti" (naturalmente tra virgolette, perché non c’è essere umano che per Dio sia insignificante).