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Come la povertà sfida l’annuncio della fede

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Dimensione Speranza - pubblicato il 26/03/14
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La povertà è cambiata nell’ultimo decennio, in alcuni casi già nell’ultimo secolo, ma è un cambiamento che non ha raggiunto tutti

di Gustavo Gutierrez

Vorrei presentarvi alcune riflessioni sulla sfida che rappresenta la povertà nel mondo di oggi per l’annuncio del Vangelo, cioè per la missione centrale della Chiesa. Potremmo dire che la povertà è un segno dei tempi: a volte tendiamo a dare ai segni dei tempi solo una connotazione positiva, ma ve ne è anche una negativa, ed è per questo che si tratta di discernere tali segni, individuando quanto è in linea con quello che la Rivelazione ci dice dell’amore di Dio e quanto gli si oppone. Vorrei ispirarmi a una frase di un grande missionario, Bartolomé de Las Casas, che diceva, pensando agli indios, cioè ai più insignificanti: del più piccolo e del più dimenticato Dio ha una memoria molto viva e fresca.
Presenterò le mie considerazioni in tre punti:

1) la sfida che rappresenta la povertà oggi per l’annuncio della fede cristiana e il tentativo di risposta della Chiesa negli ultimi anni, a partire da un contesto latinoamericano, attraverso l’opzione preferenziale per i poveri;

2) le diverse dimensioni di questa opzione;

3) l’evangelizzazione nel mondo di oggi.

1) La sfida della povertà all’annuncio della fede

La povertà si presenta come un fatto di massa, qualcuno ha detto come un fenomeno di civiltà. Per molto tempo i poveri erano considerati come casi individuali, ed erano inoltre fisicamente vicini. Oggi – attraverso la rivoluzione tecnologica, la globalizzazione, l’economia neoliberista, la crescita della popolazione nel mondo, la nuova presenza di vecchie religioni dell’umanità – possiamo dire che la povertà si presenta come un fatto universale enorme e profondo. E sorge allora una domanda: come dire al povero, oggi, che Dio lo ama? La vita quotidiana del povero sembra essere precisamente la negazione dell’amore. Come dire ai poveri non solo che Dio li ama, ma che, partendo dalla rivelazione biblica, Dio li ama in maniera preferenziale, prioritaria? A questa domanda cerca di rispondere quella che abbiamo formulato come opzione preferenziale per il povero (pur nella consapevolezza che tale domanda è molto più ampia della nostra capacità di risposta). L’espressione deriva da una prima riflessione condotta in America Latina negli anni ’60 e nasce come tale tra Medellín e Puebla. Esaminiamola parola per parola.

Povero, povertà. Parlando dell’opzione per il povero è chiaro che ci riferiamo al povero reale, perché il povero spirituale è un’altra cosa. Povertà spirituale è sinonimo di infanzia spirituale, che è l’affidarsi di un credente a Dio, il porre la propria vita nelle sue mani. È l’ideale di un cristiano: i poveri spirituali sono i santi. Quando parliamo di opzione per il povero parliamo invece del povero reale. Sarebbe facile optare per i santi, sono così pochi! Stiamo parlando invece di milioni di persone. Ma bisogna essere un povero spirituale per fare un’opzione per il povero reale.

La povertà è cambiata nell’ultimo decennio, in alcuni casi già nell’ultimo secolo, ma è un cambiamento che non ha raggiunto tutti. Ricorderò solo due cambiamenti importanti nella nostra percezione della povertà. Il primo è che la povertà è un fatto complesso. La parola povero evoca immediatamente l’aspetto economico, che infatti è un aspetto della povertà. Ma il povero nella Bibbia non è solo quello che non dispone di risorse economiche. Nella Bibbia, ed anche in questa riflessione teologica, povero è colui che è insignificante. E si può essere insignificanti, non persone, per ragioni economiche, certamente, ma anche per ragioni culturali, razziali, per il colore della pelle, per ragioni di genere (la condizione femminile è di sicuro una condizione di insignificanza). Molte volte, poi, tutti questi aspetti o alcuni di essi si riuniscono in una sola persona. Tutte queste persone sono quelle che chiamiamo "insignificanti" (naturalmente tra virgolette, perché non c’è essere umano che per Dio sia insignificante).

C’è poi un secondo cambiamento. Per molto tempo, e in alcuni casi anche ora, la povertà è stata vista come un fatto naturale, quasi come una fatalità. Alcuni nascevano poveri, altri ricchi. E da lì ad affermare che questa era la volontà di Dio il passo era breve, e infatti è stato fatto, molte volte. Per questo si parlava di due tipi di dovere: per i ricchi generosità, per i poveri umiltà e gratitudine. È chiaro che non si può giudicare il passato con le categorie attuali: a quell’epoca non esisteva l’idea, presente invece oggi nell’umanità, che la povertà ha delle cause, e che queste cause sono le strutture sociali ed economiche e anche le categorie mentali (l’idea per esempio che un tipo di cultura è superiore a tutte le altre e che queste un giorno dovranno incorporarsi ad essa). Parlare di cause è riconoscere che la povertà è il risultato delle nostre azioni e, di conseguenza, che non è la volontà di Dio, bensì una costruzione dell’essere umano. E se siamo noi ad aver creato la povertà, vuol dire che possiamo anche disfarla, eliminarla. La povertà non è un destino, ma una condizione; non è una disgrazia, ma un’ingiustizia. Questa coscienza si è andata diffondendo nell’umanità, portando di conseguenza a comprendere che oggi non è sufficiente l’aiuto immediato al povero, ma che bisogna anche andare contro le cause della povertà. Questa coscienza è avanzata con molta lentezza in ambienti cristiani, e tuttora per molte persone l’impegno con i poveri è solo l’aiuto immediato e diretto al povero. Un aiuto pur sempre necessario: se incontro un povero con una grande necessità non posso dirgli "non preoccuparti, io sto lottando contro l’ingiustizia, ma poi ritorno". Perché quando ritorno sarà già morto! L’aiuto immediato è importantissimo ma non è più sufficiente. Perché è cambiata la nostra percezione di quello che è la povertà.

I poveri stessi conservano spesso la vecchia mentalità: "che posso farci? È la cattiva sorte, sono nato povero". Nella mia parrocchia ho lottato per venti anni, e con un successo relativo, contro l’idea che hanno spesso le donne: "noi donne siamo nate per soffrire". Per questo sopportano tutto, con grande contentezza degli uomini: sono nate per soffrire? Che soffrano! Nell’insegnamento della Chiesa questa prospettiva è entrata con una certa lentezza: prima Giovanni XXIII con la Pacem in terris, poi Paolo VI con la Populorum progressio e infine Giovanni Paolo II, che è il papa che più parla delle cause della povertà.

Preferenza. Ho letto ed ascoltato interpretazioni piuttosto curiose di questa parola, per esempio che nell’espressione "opzione preferenziale per i poveri" la parola preferenziale si deve alla volontà di ammorbidire l’opzione. Storicamente non è vero. Una delle sue fonti è l’espressione pronunciata da Giovanni XXIII l’11 settembre del ’62, un mese esatto prima dell’inizio del Concilio: che la Chiesa è e vuole essere la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri. La parola "preferenza" non possiamo comprenderla se non la mettiamo in relazione con l’universalità dell’amore di Dio. Dio ama tutte le persone, nessuno escluso: povero, ricco, bianco, nero, tutti sono amati da Dio. Ma, allo stesso tempo, Dio preferisce gli ultimi, i più poveri. C’è tensione, non contraddizione. Una madre con più figli di diversa età proteggerà specialmente il più piccolo. E la domanda eterna dei più grandi è: tu ami più mio fratello. E la risposta eterna è: no, io amo tutti ugualmente. L’amore di Dio è un amore per tutti e una protezione speciale per chi più ne ha bisogno. Dire "per me solamente i poveri sono importanti" non è da cristiani. Dire "io amo tutti allo stesso modo", neppure. Se parlo di preferenza, sto dicendo che non escludo nessuno. E se dico "primo", vuol dire che penso a un secondo, perché se non c’è un secondo non direi "primo". Preferenza significa che qualcosa è prioritaria, ma che non è l’unica. C’è una tensione, è vero, ma le tensioni sono feconde, come quella che esiste tra contemplazione e azione, entrambe necessarie. Così è anche per l’universalità e la preferenza. Il teologo Karl Barth diceva negli anni ’40: Dio prende sempre la parte del più povero, dell’oppresso, del più debole. Negli anni ’40 non c’era bisogno di richiamarsi alla Teologia della Liberazione per rendersi conto di questo, bastava leggere la Bibbia.

Il tema della preferenza
porta con sé una domanda: perché i poveri devono essere prioritari? Si possono dare molte ragioni. Per esempio, sulla base di un’analisi sociale, economica, culturale del mondo di oggi, di fronte alla presenza di moltissimi poveri, di una così grande sofferenza nell’umanità, posso pensare che è opportuno optare per i poveri. È una ragione legittima, ma non quella decisiva. Posso essere spinto dalla compassione umana, ma neppure questo è decisivo. E non lo è neanche il fatto di avere un’esperienza diretta del mondo povero. Molte volte, fuori dall’America Latina, sento persone che dicono di capire perché parlo dei poveri: perché sono latinoamericano. Io dico sempre: per favore, non comprendetemi così presto! Perché la prima ragione per cui parlo dei poveri è perché tento di essere fedele al Dio di Gesù. Un’altra ragione che si dà a volte è che i poveri sono tanto buoni e tanto generosi. Quando sento questo, penso sempre che la persona che lo dice lavora con i poveri da sei mesi: se lavorasse con loro da sei mesi e mezzo già non lo direbbe più. I poveri sono esseri umani e tra loro vi sono quindi i buoni e i generosi e quelli che rappresentano un pericolo pubblico. La ragione per occuparsi dei poveri non è perché il povero è buono, ma perché Dio è buono. Questa è la ragione decisiva per un credente. È un’opzione teocentrica. La ragione è la bontà di Dio, la bontà gratuita, che non dipende cioè dai meriti di una persona. Così un padre ama i suoi figli. E Dio ci ama gratuitamente perché siamo i suoi figli e le sue figlie. Non è la qualità morale o religiosa del povero che deve motivare l’opzione, ma l’amore gratuito di Dio.

Opzione. L’origine di questa parola si può trovare a Medellín: la povertà come impegno è solidarietà con il povero e protesta contro la povertà. Gesù ha preso su di sé i peccati di questo mondo: per amore del peccato? No, per amore del peccatore e per rifiuto del peccato. Si ama chi soffre la povertà, ma la povertà, in quanto condizione inumana, non è amata da Dio. L’opzione per i poveri comprende questa doppia dimensione. A volte si pensa che è il non povero a dover fare l’opzione per il povero. Non è così. L’opzione per il povero è compito di ogni cristiano, povero e no. A volte il non povero soffre di un certo complesso, ritenendo che l’essere poveri sia di per sé una cosa buona. Ma l’insignificanza non è un ideale: non bisogna cercare di essere insignificanti, bisogna cercare di essere impegnati al loro fianco. Penso a mons. Romero: Romero non era un insignificante. Come poteva esserlo un arcivescovo? Ma era impegnato, fino al punto da dare la sua vita. L’ideale cristiano è l’impegno, ma accompagnato dalla coscienza che questa situazione di povertà, di insignificanza sociale non è in accordo con la volontà di Dio.
 

2) Dimensioni della prospettiva dell’opzione preferenziale per i poveri.

Per prima cosa, l’opzione per il povero si ripercuote sul lavoro di evangelizzazione. Dopo Medellín, molti gruppi cristiani, comunità religiose, gruppi di laici, si spostarono nelle aree povere delle proprie città e Paesi. Ma non c’è solo una ridistribuzione di forze pastorali a vantaggio di questi settori. C’è qualcosa di più, e cioè l’assumere la prospettiva del povero nell’annuncio del Vangelo in qualunque settore sociale. Anche per le persone che vivono in Paesi dove i poveri sono una minoranza si tratta di lavorare a partire dal povero. Non sempre si tratta di andare fisicamente nelle aree povere, c’è anche la possibilità di andare mentalmente, di vedere cioè la storia umana, e il presente, e le sfide del terzo millennio a partire dai poveri. È, in maniera molto semplice, chiedersi, come fa il libro dell’Esodo, dove vanno a dormire i poveri nel mondo che viene. Che ne è di loro nel mondo che si sta costruendo?

Oggi esiste un interesse molto grande per la teologia della geografia dei vangeli, soprattutto di Marco. La Galilea è una provincia disprezzata, dove la gente parla anche con un accento diverso (per questo Pietro viene scoperto). E se Gesù va a morire in Giudea, dove c’è Gerusalemme, è tuttavia in Galilea, in questa terra disprezzata, che annuncia il Regno. È da qui che parte l’evangelizzazione. Oggi noi dobbiamo scegliere la nostra Galilea. Il mondo del povero deve essere il punto di partenza della nostra evangelizzazione. Non ci sarà magari aiuto fisico, diretto, nelle zone povere, però sì ci dovrà essere questa prospettiva.

Le persone di Chiesa, gli operatori pastorali, qualunque sia la loro origine sociale, sono persone che hanno la loro residenza in un mondo che non è del povero. Il mondo del povero si presenta come un campo di lavoro, non di residenza. Il mondo del povero è conflittuale, complicato, anche pericoloso. Dobbiamo convertirci e portare il nostro mondo nel mondo del povero, avere lì la nostra casa e da lì uscire ogni mattina ad annunciare il Vangelo ad ogni persona.

C’è poi una dimensione teologica. Nel dialogo con alcuni settori di teologia accademica – il termine non mi piace molto perché sembra avere una sfumatura peggiorativa, mentre si tratta di un lavoro serio (nella mia vita io ho cercato di fare teologia accademica) – una cosa che risulta difficile è convincere molti teologi dell’emisfero nord che la povertà è una sfida alla fede. Per loro, infatti, si tratta solo di un problema sociale. Comprendono bene, questi teologi, che quello che viene dalla società moderna (la ragione critica, le libertà moderne, l’affermazione dell’individuo) è una sfida alla teologia. Ma la povertà no. In realtà la povertà, se è un fenomeno di civiltà, se è così tanto profonda, rappresenta una grande sfida all’annuncio della fede.
La domanda della teologia moderna potrebbe essere quella formulata dal teologo luterano Dietrich Bonhoeffer: come parlare di Dio in un mondo adulto? Si tratta del mondo moderno, un mondo che non ha bisogno di Dio per spiegare, per esempio, i fatti naturali. Il "come" non significa che non se ne possa parlare: è una domanda. Allo stesso modo, possiamo dire che quello che mette in discussione l’annuncio del Vangelo è il mondo della povertà. Perché la povertà in ultima istanza significa morte: morte prematura e morte ingiusta. I primi missionari domenicani delle Indie, oggi America Latina, dicevano: gli indios muoiono prima del tempo. Ed è questo che succede ai poveri oggi. Malattie che l’umanità è già riuscita a debellare continuano ad uccidere persone nei Continenti poveri. Alcuni anni fa è apparso in Perù, e non se ne è più andato, il colera, che non esisteva più da molto tempo. E ha ucciso molti poveri, che non hanno possibilità di bere acqua pulita. Nei quartieri residenziali non è morto nessuno: anche il colera aveva fatto l’opzione preferenziale per i poveri. Questa è morte fisica, ma c’è anche la morte culturale. Gli antropologi dicono che la cultura è vita: quando io disprezzo una cultura, uccido culturalmente chi fa parte di questa cultura. Quando non si riconosce la pienezza dei diritti umani di una persona in qualche modo la si sta uccidendo. Questa è la povertà.

La povertà in ultima istanza è morte, ma noi cristiani dobbiamo essere testimoni della vittoria sulla morte, della risurrezione. Come essere testimoni della resurrezione, allora, in
un pianeta, in un continente segnato dalla morte prematura e ingiusta? La resurrezione è la vittoria sulla morte, è l’affermazione che la vita e non la morte è l’ultima parola della storia. E per vita intendo sia quella spirituale che quella fisica. Questo mette in discussione l’annuncio del Vangelo.

Pensare la fede a partire dal povero non è l’unica maniera, è una maniera. La prospettiva del povero è sommamente importante, ma è una prospettiva. Il contenuto della Rivelazione è talmente ricco che non finiamo mai di comprenderlo. Ma credo che questa prospettiva ci aiuti. Da 25-30 anni parliamo della trasformazione della storia, della promozione della giustizia come di un elemento intrinseco all’evangelizzazione. Non è stato sempre così. Considerare la promozione della giustizia come qualcosa di intrinseco all’evangelizzazione è un fatto teologicamente nuovo. Quando ero studente si diceva che tutto quello che riguardava il sociale era previo all’evangelizzazione, ma non era evangelizzazione. Un po’ come le dimostrazioni filosofiche dell’esistenza di Dio, che non sono ancora teologia, ma preambula fidei. Il lavoro di promozione della giustizia era ritenuto importante, ma non era considerato evangelizzazione. Oggi è visto come intrinseco. Giovanni Paolo II l’ha ripetuto fino alla stanchezza.

La terza dimensione della prospettiva dell’opzione per i poveri è quella della spiritualità, della sequela di Gesù. La parola spiritualità è recente nella Chiesa: viene da ambienti francesi del XVII secolo. Fino a quel momento si parlava piuttosto di sequela di Gesù. Spiritualità viene dallo Spirito, con la maiuscola, non dallo spirito come sinonimo di anima. Non è un comportamento in accordo con la parte più nobile dell’essere umano, ma è secondo lo Spirito Santo. L’opzione per il povero presenta anche questa dimensione. Optare in maniera preferenziale per i poveri è un cammino spirituale, una sequela di Gesù. E io direi che anzi questo è il livello più profondo dell’opzione preferenziale per il povero. Ho imparato da un mio grande maestro, Dominique Chenu, che non c’è da domandarsi quale teologia stia dietro a una spiritualità, bensì quale spiritualità stia dietro a una teologia. La sequela di Gesù è inseparabile dalla riflessione, e soprattutto è inseparabile dall’annuncio. Nessuno può seguire Gesù senza annunciare il Vangelo. E io direi che nessuno può seguire Gesù senza pensare alla fede. E l’essere umano che pensa la sua fede sta facendo teologia.

Allora, perché evangelizzare? Possiamo dare molte ragioni valide. Perché è un mandato del Signore, ed è una ragione di capitale importanza. Perché abbiamo sentito la vocazione. Ma credo che la ragione primaria del perché comunichiamo il Vangelo è perché vogliamo condividere la gioia che produce il sapere che siamo amati da Dio. La fonte di gioia di un cristiano è sapersi amato da Dio. E chi vive una gioia vuole comunicarla. Questa è l’evangelizzazione: un’esperienza spirituale di gioia. Non parlo di una gioia facile, ma di una gioia pasquale, che passa per la sofferenza e la morte, in senso metaforico, ma che alla fine è gioia.

3) L’evangelizzazione nel mondo di oggi

Voglio menzionare un testo del Vangelo che mi sembra molto bello, un testo che si trova in tutti e quattro i vangeli e che dunque bisogna prendere molto sul serio (Giovanni, si sa, è come un franco tiratore, va per suo conto): il testo dell’unzione di Betania. Ho l’impressione che questo testo sia un po’ come la sintesi del Vangelo. Gesù sta mangiando in casa di Simone il lebbroso (che non era più tale, altrimenti non sarebbe stato in città) e viene una donna anonima che rovescia un profumo sulla testa di Gesù. Ricordate la reazione: "questo è uno spreco, si sarebbe potuto vendere il profumo per 300 denari" (un denaro era il salario di un giorno di un lavoratore). Ma Gesù prende le sue difese: questa donna ha fatto un’opera buona. La parola greca che traduciamo con buona è una parola che ha varie traduzioni: vuol dire tanto buona come bella. E Gesù dice: questa donna ha fatto un’opera buona, bella, nei miei confronti. L’obiezione che viene avanzata è a partire dal messaggio di Gesù: "meglio sarebbe stato distribuire il denaro tra i poveri". È un punto del messaggio di Gesù che viene usato contro la donna. Ma Gesù dice: i poveri saranno sempre con voi. Questo richiama il cap. 15 del Deuteronomio, dove troviamo tre affermazioni: 1 che non ci siano poveri tra di voi: è questo l’ideale, 2. se ci sono poveri, aprite la mano e il cuore, 3 sempre ci saranno, e perciò dovrete sempre aprire la mano e il cuore. Se l’affermazione di Gesù viene isolata dal contesto delle due precedenti affermazioni, ne perdiamo il senso: potrete sempre fare qualcosa per i poveri, ma questa donna ha fatto un’opera buona, un’opera gratuita. Gesù in questo momento è povero, indifeso ed è in certa maniera già condannato a morte. Questa donna non può impedirlo e può semplicemente augurargli vita: il profumo è questo, è l’idea antica dell’imbalsamazione. In questo caso la donna esprime un amore gratuito.

Una volta, preparando il Natale nella mia parrocchia a Lima, una signora molto anziana mi disse: "sa, padre, io sono di una famiglia molto povera (e continuava ad esserlo in realtà) e quando ero bambina a Natale ricevevamo riso, pane, zucchero". Ma un Natale un sacerdote le regalò una bambola, per la prima volta nella sua vita: "non ho più dimenticato il viso di quel sacerdote". La bambola era inutile, rispetto alle sue necessità di base: non si mangia una bambola, non serve a niente se non a giocare. Ma lei non se ne è più dimenticata. Il povero è una persona che ha dei bisogni fisici: tetto, salute, alimenti, ma che ha anche bisogno di amicizia, di tenerezza e di gratuità.

Da una parte c’è un linguaggio che in termini biblici potremmo chiamare profetico: è il linguaggio della giustizia, dell’incontro con Dio nel povero. Ma dall’altro c’è il linguaggio della gratuità, di quello che non è immediatamente utile. Nel mondo dei poveri il senso della gratuità è molto forte. Mi impressiona molto a Lima vedere gente che entra in chiesa e resta lì seduta, mezz’ora, un’ora, due ore. I poveri sono ricchi di tempo. Noi siamo persone di orologio e di agenda: se qualcuno voleva parlare con me tiravo fuori l’agenda e fissavo l’ora, e qualunque ora dicessi andava bene. Chi non ha lavoro di tempo ne ha d’avanzo. Poi mi resi conto che prendere l’agenda era come aggredire le persone. E lasciai l’agenda. Fissavo le visite e me le appuntavo a casa.

C’è un linguaggio profetico, della giustizia, e un linguaggio della gratuità che è contemplativo: senza contemplazione, preghiera, non c’è vita cristiana; senza impegno storico neppure. Unire questi due linguaggi è la maniera, credo, di comunicare il Vangelo. Con questo, abbiamo risposto alla domanda di come dire al povero che Dio lo ama? La domanda è molto più grande del nostro tentativo di risposta, troppo profonda è la sofferenza dell’innocente per pensare che possiamo rispondere una volta per tutte. Ma questa prospettiva cerca di dire qualcosa al riguardo.

da Adista, n. 90, 13-12-2003. Il testo è tratto da una registrazione e non è stato rivisto dall’autore)

qui l’articolo originale