Il primo ad aver individuato sul campo il virus della SARS
perché il loro sacrificio estremo
di aver dato la propria vita
non sia stato inutile,
ma per la loro morte
qualcosa sia cambiato».
Carlo Urbani
(preghiera per la Messa, 1976)
Il 29 marzo 2003 moriva all’ospedale di Bangkok Carlo Urbani, il medico italiano che per primo aveva individuato sul campo il virus della SARS. Come in un lungo flashback, la sua storia non può che essere raccontata a ritroso, partendo proprio da quel 29 marzo quando le agenzie di stampa di tutto il mondo batterono la notizia della sua morte. In Italia, infatti, solo la notizia della sua scomparsa svelò la sua vita.
E così scoprimmo che Carlo Urbani era un infettivologo tra i più esperti al mondo: era lui che aveva “scoperto” la SARS e che, per una sorta di tragico contrappasso, era stato ucciso proprio dal misterioso virus della “polmonite killer”, contratto dopo aver accettato di visitare un paziente che presentava i sintomi di “una strana influenza” all’ospedale di Hanoi, in Vietnam, dove, come inviato dell’Oms, da anni si era trasferito con la famiglia.
Il ruolo di Carlo Urbani era quello di coordinatore per la regione del Pacifico occidentale nel controllo delle malattie parassitarie: nulla a che vedere dunque con la patologia, la “strana influenza”, che aveva colpito il paziente ricoverato. Ma quando un caso preoccupante arrivava ad Hanoi, lo staff dell’Oms solitamente diceva “chiamiamo Carlo”, perché riconosciuto esperto anche di diagnostica clinica. E anche perché non si tirava mai indietro davanti alla malattia e alla sofferenza di qualunque essere umano. E così fece anche il 28 febbraio 2003, recandosi all’ospedale per visitare mister Johnny Chen, americano proveniente da Honk Hong ricoverato per i sintomi che solo in seguito il mondo intero conoscerà come SARS, sindrome acuta respiratoria severa. Urbani comprende immediatamente la gravità della situazione, e la descrive così all’Oms: «Ho un ospedale pieno di infermiere che piangono. La gente corre e urla ed è totalmente terrorizzata. Non sappiamo che cosa sia ma non è influenza…». Senza perdere tempo lancia l’allarme.
La tensione sale anche in famiglia, e di fronte alla moglie Giuliana che, pur restandogli al fianco, cerca di fermarlo, Carlo risponde: «Non dobbiamo essere egoisti, io devo pensare agli altri e tu lo sai. Se non posso lavorare in situazioni come questa, per quali ragioni sono qui?». Non ha scelto un mestiere qualunque: è parassitologo, esperto in malattie tropicali, ha speso buona parte della sua vita in Africa e in Asia, tra i malati di Aids e i bambini morenti per le peggiori infezioni: conosce le precauzioni da prendere, non è mai imprudente, ma questo è il suo lavoro, che medico sarebbe se di fronte alla malattia si tirasse indietro?
11 marzo: Urbani è in volo verso Bangkok, in Thailandia, per una conferenza. In aereo inizia ad accusare qualche disturbo: si sente debole, fiacco, forse ha la febbre, e una lieve tosse. È il medico che ha scoperto il virus e che lo conosce meglio di chiunque altro: immediatamente si rende conto di essere una nuova vittima di quella atipica polmonite.
Per i diciotto giorni successivi, ricoverato in isolamento nell’ospedale di Bangkok, Carlo Urbani combatte contro la SARS la sua guerra personale. Fa ripartire per l’Italia i suoi tre bambini, che non rivedrà mai più. Collabora con i medici arrivati da Germania e Australia per curarlo, ai quali consiglia terapie, provando con i medicinali noti, alla ricerca di quello giusto. Prima di andarsene, ha la forza di pensare ancora agli altri, raccomandandosi con i colleghi che il suo tessuto polmonare sia salvato per essere studiato.
Giuliana, la moglie, gli resta accanto fino all’ultimo. Il 18 aprile 2003 milioni di persone la rivedranno accanto a Giovanni Paolo II, sul cammino della Via Crucis del Venerdì Santo, accompagnata da suo figlio Tommaso, al quale poi lungo il percorso passerà la croce che portava.
Dopo la SARS – la prima malattia dell’era della globalizzazione -, dal 2003 altre pandemie hanno fatto la loro comparsa, ma ogni volta la comunità scientifica mondiale si è fatta trovare pronta proprio grazie a Carlo Urbani e alla «prova generale», ormai divenuta protocollo internazionale, da lui messa in atto per fermare il contagio.
Da quel 29 marzo, abbiamo scoperto che per molti anni quel medico italiano, silenziosamente, aveva lasciato tracce di sé in buona parte del mondo, tra gli ultimi della terra, tra i poveri e dimenticati, quelli straziati dalla fame e dalla malattia, portando sollievo, medicinali e soprattutto il diritto alla salute. E si è saputo che Carlo Urbani nel 1999 aveva ritirato il Premio Nobel per la pace come presidente nazionale di Medici Senza Frontiere. Di tutto questo, in Italia, si sapeva poco o niente, ma da quel momento si è scritto e detto di tutto: un santo? Un eroe? Un missionario? Uno scienziato geniale? Un samaritano pronto a donare la vita per salvare quella degli altri?
Carlo Urbani era prima di tutto un Uomo, poi un Medico che faceva fino in fondo il suo lavoro. Quando si spense nell’ospedale di Bangkok, era ormai ai vertici dell’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, come responsabile per il Sud-Est asiatico. Ancora qualche passo e sarebbe arrivato alla testa dell’Oms: avrebbe raggiunto non l’apice della carriera, ma per usare le sue parole, «il sogno di distribuire accesso alla salute ai segmenti più sfavoriti delle popolazioni».
Il modo in cui Urbani gestì l’emergenza SARS, in prima persona, con competenza e spirito umanitario, ha origini lontane: non fu un episodio, ma il risultato di una lunga maturazione professionale. Questo è il punto di partenza di Lucia Bellaspiga, giornalista di Avvenire, che nel libro “Medico senza frontiere. Ritratto di Carlo Urbani” (Àncora Editrice, 2013) racconta, partendo dalla morte del protagonista, il “prima” di Carlo Urbani: la sua vita di medico, quel lungo flashback costellato di scelte coerenti e coraggiose che ne hanno fatto un eroe vero, uno di quegli eroi del quotidiano che rendono ogni giorno la vita di qualche uomo meno dolorosa e il mondo un po’ più giusto. Nuove lettere di Urbani e alcuni resoconti di viaggio ritrovati in questi anni, insieme alle testimonianze di familiari, amici, colleghi e pazienti aiutano ad illuminare ulteriormente la figura di un uomo diventato famoso, sull’onda dell’emozione internazionale, per la sua “morte sul campo”, che però non è stata altro che la “logica” conseguenza di una vita spesa sempre e all’estremo per gli “ultimi”, da medico “senza frontiere” e da credente convinto che «il Padre buono mi ha offerto una vita ricca» (da una lettera del 1997).
A undici anni dalla sua scomparsa, Lucia Bellaspiga ripropone la figura di Carlo Urbani come un grande esempio di onestà, generosità, apertura, ascolto e rispetto dell’altro. Ripartendo dalle parole di Enzo Biagi, «Se i libri di storia del futuro hanno pagine ancora bianche da essere riempite, ecco, dovranno parlare del medico Carlo Urbani».
E’ così che mi sento in questo periodo: profondamente felice. L’unica angoscia è che tutto scorra troppo in fretta, e che poco mi resti tra le dita, immerse nella corrente della vita che mi scivola addosso. Mi chiedo cosa restituire, in cambio di quanto ricevo. Impegno sul lavoro, qualche sorriso regalato, una carezza quando capita, ma soprattutto un profondo senso di gratitudine. Ma non sono certo che basti».
Carlo Urbani – da una lettera del 2001