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Nel lavoro “l’uomo della crisi” può riscoprire la propria sovranità

Mother with baby in work

© ZURIJETA / SHUTTERSTOCK

Emanuele D'Onofrio - Aleteia - pubblicato il 22/03/14

Dignità del lavoro, impresa, politiche familiari: se ne parla ad in un incontro organizzato presso l’Università Lateranense

La crisi che fatichiamo a lasciarci alle spalle ci sta cambiando, in ciò che facciamo, in come ci comportiamo, in famiglia e al lavoro. L’averlo problematizzato, sia quando c’è che quando non c’è, ha fatto sì che ci rendessimo conto che qualcosa non funziona più nel nostro rapporto con il lavoro. Ci siamo accorti, in molti casi, che qualcosa si è perso nella nostra abilità di decidere per noi stessi, di essere liberi e responsabili delle nostre scelte. In questo senso, una ridefinizione del lavoro significa una riscrittura della nostra identità. Se ne parla il prossimo 26 marzo ad una giornata di studio dal titolo “Per una nuova cultura del lavoro”, organizzata presso l’Università Lateranense. Il professor Flavio Felice, docente di Dottrine Economiche e Politiche presso lo stesso ateneo, e vice preside dell’Istituto Pastorale Redemptor Hominis, ha spiegato ad Aleteia i temi al centro dell’evento.

L’uomo “della crisi” e il lavoro, quale spunto può arrivare dal mondo cattolico?

Felice: L’idea di dare vita a una giornata di studio sul tema “Per una nuova cultura del lavoro” – organizzata dall’area di ricerca Caritas in veritate e dall’Istituto Pastorale Redentor Hominis, entrambi della Pontificia Università Lateranense – è nata dalla consapevolezza che oggi il lavoro può rappresentare ancora lo strumento privilegiato di liberazione per l’uomo. Si tratta di un convincimento che nasce anche dalle ultime esternazioni del Santo Padre, il quale ci ricorda, e qui cito una sua importante dichiarazione, che “non c’è peggiore povertà materiale di quella che non permette di guadagnarsi il pane e che priva della dignità del lavoro”. Una simile dichiarazione andrebbe contestualizzata: papa Francesco affidò queste parole ai partecipanti a un convegno internazionale della Fondazione Centesimus Annus per la Dottrina Sociale della Chiesa, nel maggio 2013, dove trattava il tema della “sovranità”. Allora, ci siamo posti l’obiettivo di approfondire questo aspetto: il papa lega un tema con una profonda dimensione politica come la “sovranità” al tema del lavoro, normalmente trattato dal punto di vista economico, sociologico e giuridico.

Che cosa significa “sovranità”?

Felice: Significa che il lavoro è, autenticamente, uno strumento civile per la liberazione dell’uomo. Il tema della dignità e del lavoro, se noi li scindiamo dalle possibili declinazioni in ambito politico, ossia dalla possibilità che ciascuno di noi sia sovrano e, dunque, capace di scelta e responsabile delle conseguenze dalle sue azioni, appaiono svuotate del loro significato umano. È questo il caso in cui il lavoro è motivo di alienazione. Cosa significa per la Dottrina Sociale della Chiesa e per la tradizione cristiana parlare di alienazione? Significa parlare di un lavoro che perde il tratto di umanità, un tratto che gli è dato proprio dalla capacità di scelta sovrana per la singola persona. Per questo motivo abbiamo cominciato a ragionare sul tema della cultura del lavoro, al di là delle condizioni del lavoro, del diritto al lavoro e del diritto che interessa i singoli lavoratori. La cultura del lavoro ci appare sempre più la cultura della “sovranità”, cioè il tentativo di passare dalla condizione di suddito, protetto, garantito, ma pur sempre suddito, a quella di sovrano, cioè di colui che si prende cura di se stesso e degli altri ed è responsabile delle azioni che compie.

Il successo economico e la dignità, per la Dottrina Sociale della Chiesa, sono valori in antitesi o vanno d’accordo?

Felice: Sono due nozioni, quella del successo nel mondo del lavoro – un successo al quale è naturale e spontaneo che si aspiri – e quella della dignità, che vanno d’accordo avendo come riferimento sempre la nozione di “sovranità”. Qui vorrei tornare al tema della “sovranità”: il sovrano è responsabile, noi dal sovrano ci aspettiamo che risponda, perché responsabile delle conseguenze delle proprie azioni. Dunque, il lavoratore, in quanto cittadino libero, autonomo e “sovrano”, deve poter rispondere delle proprie azioni, perseguire il successo: ed è giusto che questo avvenga, è naturale, è bello, è ciò che ci fa crescere, è ciò che fa crescere l’intera società. Ma quest’aspirazione al successo si deve misurare sempre con il tema della responsabilità, solo allora dignità umana e successo professionale non entrano in contraddizione. Ossia, se io voglio diventare più ricco, più bravo, più abile, un uomo di successo, ben venga questa aspirazione nella misura in cui io sia disposto a rispondere delle conseguenze del mio agire. E queste conseguenze riguardano la vita in comune, toccheranno il mio prossimo, la mia famiglia, la mia azienda. Le mie azioni cambiano la realtà che mi circonda, sia essa quella familiare, sia quella sociale, sia quella istituzionale. E quindi devo essere disposto anche a pagare per le conseguenze di un mio agire che non sia apprezzabile da un punto di vista morale.

La crisi del lavoro in che modo si ripercuote sulla famiglia?

Felice: Io distinguerei due aspetti del problema. Il primo riguarda la difficoltà di conciliare il tempo dedicato al lavoro e il tempo dedicato alla famiglia. Questo aspetto va affrontato attraverso le istituzioni, che sostengono la famiglia. Quando parlo di istituzioni non mi riferisco solo allo Stato, ma a tutto quello che gli individui stessi riescono a costruire, per il bene loro e del loro prossimo. Quindi le istituzioni possono essere di natura privata o di natura pubblica: sono associazioni, sindacati, scuole, tutto ciò che sta tra l’individuo e lo Stato. Allo Stato spetta il grande compito di stabilire le regole del gioco e di farle rispettare. In questo senso, dunque, la conciliazione tra il tempo del lavoro e il tempo della famiglia è fondamentale: una nuova cultura del lavoro prevede anche una nuova cultura del tempo libero, del tempo dedicato alla famiglia, che poi si deve tradurre in regole. L’altro aspetto del problema invece è tipico dei momenti di crisi: il rapporto tra il lavoro che non c’è e la famiglia. Quando il lavoro non c’è la famiglia soffre per ragioni materiali, ma anche per ragioni intangibili, psicologiche. Il lavoro che manca significa assenza di reddito, ma anche di opportunità per la famiglia, depressione, crisi, dignità non riconosciuta: la dignità c’è sempre, ma il lavoro ci consente di riconoscerla e di far sì che essa sia riconosciuta dall’esterno. Tutto questo può ammazzare una famiglia, oltre che ammazzare fisicamente una persona. Di nuovo, il ruolo delle istituzioni è di guidare queste situazioni difficili: penso in primis alla scuola, alle università, ai sindacati, a tutti coloro che possono dare una mano, anche in termini di sostegno psicologico a chi momentaneamente il lavoro non ce l’ha. Però, attenzione, l’obiettivo non è quello di assistere una persona, ma di sostenerla per renderla di nuovo abile, attiva e capace di riposizionarsi nuovamente sul mercato del lavoro. E’ qui che interviene il soggetto fondamentale, quando si parla di lavoro: l’istituzione che il lavoro lo crea e lo rende disponibile, cioè l’impresa. Il lavoro non è un’entità metafisica che lo Stato oggettivizza: il lavoro è domanda e offerta di beni e servizi che necessitano di un’istituzione che li produca. Quindi c’è bisogno dell’impresa, e cultura del lavoro significa in prim
is cultura imprenditoriale: scoprire nuove opportunità, nuovi mercati, posizionarsi nel modo più efficiente, essere sempre più competitivi. Tutto ciò la Dottrina Sociale della Chiesa lo riconosce da decenni, e noi con il nostro lavoro cerchiamo di renderlo diffuso nella coscienza dei cristiani.

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