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La necessità del “fitness” spirituale

hombre leyendo en una escalera – it

© Ed Yourdon

Religión en Libertad - pubblicato il 19/03/14

Diamo grande importanza al benessere fisico, ma il nostro spirito è "in forma"?

di Josué Fonseca

È una cosa che accade piuttosto spesso. Qualcuno sta parlando con te della sua vita di fede, e quasi sempre la lamentela è la stessa: “mi costa trovare del tempo per la preghiera”, o “mi costa concentrarmi, mi distraggo, non sento nulla, non so cosa fare”. Sembrano “piccoli problemi” tipici di una società moderna e di una vita che sembra disegnata proprio per farci correre tutto il santo giorno da una parte all'altra, alla periferia del nostro essere…

In realtà, però, non si tratta di cose di poco conto, e l'accompagnatore, il confessore o il direttore spirituale farebbe bene a non porre fine alla questione con delle semplici pacche sulle spalle, dicendo “Lo sai, ciò che conta è l'intenzione. Fa' quello che puoi”, ecc. Sì, certo, ciò di cui la gente che accorre da noi ha meno bisogno è essere colpevolizzata ulteriormente, ma le persone meritano il meglio, e il meglio in questo caso è dare al loro problema tutta l'importanza che merita. Problema? Sì. Un grande problema. Per ragioni che sarebbero difficili da analizzare, quello che potremmo definire “essere in una buona forma spirituale” dei cristiani è un aspetto di cui si parla appena. O se ne parla in termini molto vaghi.

E non è un problema astratto, né teologico, in origine. Si tratta di una questione di sopravvivenza. Forse può spiegarlo meglio un esempio. Immaginiamo che io vada dal medico di famiglia e gli dica: “Dottore, sono in perfetta salute. Conduco una vita normale e non ho dolori. L'unico problema è che ho pochissime forze, sono sempre meno capace di fare qualcosa…”. Suppongo che il medico mi ausculterebbe e mi farebbe le domande di routine, fino ad arrivare al tema dell'alimentazione, e allora io gli direi: “Oh, mangio appena, per cui non ho problemi di digestione né altro…”. “Come non mangi?”. “Beh, scusi, sono un esagerato! In realtà mangio: guardi, ieri ho mangiato uno yogurt magro al mattino e un biscotto il pomeriggio!” Non serve proseguire con questo dialogo assurdo. Com'è ovvio, la cosa più probabile è che il medico ci spedisca a una visita psichiatrica il prima possibile.

Cosa accade con il cibo spirituale? “Non è la stessa cosa”, potrebbero dire alcuni…

No? È ben noto il famoso aneddoto del cardinal Lercaro (uno dei più importanti padri conciliari del Concilio Vaticano II) quando, in una riunione con il suo clero di Bologna in cui esortava a prendersi cura della vita di preghiera personale, un giovane sacerdote gli disse: “Padre, quando trovo mezz'ora per pregare?” e si giustificava con orari impossibili per le tante attività che doveva svolgere dalla mattina presto alla sera tardi. Si dice che l'anziano e santo cardinale gli rispose con un sorriso: “Mi hai convinto: con quella vita che hai non puoi dedicare mezz'ora al giorno alla preghiera; hai bisogno di un'ora intera!”. In altre parole: che valore hanno tutte le attività che svolgi se le fai solo in base alle tue opinioni, intenzioni e proiezioni?

Riunire citazioni sull'importanza della vita spirituale sarebbe un compito inutile. Non c'è stato santo o uomo di Dio che non abbia insistito fino allo stremo sul fatto che questa è la base di tutto, di tutto ciò che siamo e di tutto ciò che possiamo fare per gli altri. E tuttavia cosa accadrebbe se facessimo un'indagine non dico in una parrocchia all'uscita dalla Messa una domenica, ma in un Congresso di Nuova Evangelizzazione o in una Giornata Mondiale della Gioventù o in qualsiasi altro foro di “gente impegnata”? Quale media di tempo quotidiano dedicato al Signore, riservato esclusivamente a stare con Lui, ci offrirebbero i partecipanti?

In questo risiede uno dei problemi più grandi della Chiesa attuale. Lì si trova l'ostacolo principale alla Nuova Evangelizzazione. Lì. Solo lì.

Mi verrà detto che la vita di preghiera spesso non si traduce direttamente in un equivalente proporzionale di impegno e santità, ed è vero. Può anche essere che sia la causa dell'enorme mancanza di prestigio che la vita spirituale ha avuto a partire dagli anni Sessanta. Padre Larrañaga, scomparso di recente (e al quale da qui dedichiamo un ricordo pieno di affetto), lo spiegava molto bene nei suoi libri e ritiri: c'è una preghiera non autentica, falsa, che non cerca il Totalmente Altro, ma un dio rimpicciolito che tutto sommato non è altro che una proiezione delle nostre piccole illusioni e delle nostre piccole paure.

Il fatto che ci siano persone bulimiche o anoressiche, però, non vuol dire che alimentarsi bene non sia necessario. Il fatto che per alcuni la vita di preghiera sia una via di fuga, o un antidoto contro l'impegno, non significa che senza di essa l'autentica vita cristiana non sia impossibile. Permettetemi di ripeterlo con umiltà: impossibile. Impossibile. Un vescovo che è stato mio professore e per il quale provo grande affetto ci ha detto una volta riferendosi al commento sfortunato di una persone che aveva una responsabilità nella Chiesa: “Com'è possibile che dica queste parole qualcuno che si suppone abbia una vita di preghiera?”. Sì. Com'è possibile appartenere a un consiglio parrocchiale, dirigere una scuola cattolica o una delegazione della Caritas o essere catechista, o ancora sacerdote, e vivere in un'anoressia spirituale costante?

Alcuni mesi fa ho assistito a una conferenza del famoso pastore Bill Hybells nella quale questi ha sottolineato un'idea che ha richiamato la mia attenzione. Era più o meno questa: “Il tuo stato spirituale, come la tua forma fisica, è una tua responsabilità. Sai perfettamente cosa fare per stare bene”. No, non è una cosa legata alla “grazia” che ora ci avvicina a Dio e ora ce ne allontana. Quella è un'altra questione: la vita spirituale ha momenti di luce e di oscurità, è chiaro, ma entrambi possono essere vissuti in “buono stato” o nell'angoscia, allo stesso modo in cui non è lo stesso avere un problema di salute se si è in buone condizioni fisiche o no.

Il “fitness spirituale” è necessario. Se ti costa pregare, come se ti costa mangiare, inizia a farlo anche con poca voglia. Se non resisti mezz'ora, inizia con dieci minuti. Ti racconto un segreto. Quando ero all'università (l'università degli anni Ottanta!), pochi potevano sospettare che un hippy come me, con i capelli fino alle spalle e i maglioni neri di lana, uscisse puntualmente tra una lezione e l'altra per stare tre o quattro minuti con il Signore in bagno e chiedergli di aiutarmi in quel luogo in cui non era facile essere cristiano senza sembrare un fricchettone, né essere accettato senza tradire se stesso.

Mi è andata molto bene, solo per la sua Grazia.

Perché non dedicare quattro spazi di cinque minuti al giorno per fermarsi, mettersi in contatto con Dio, che è sempre disposto ad ascoltarci, e dirgli come Pietro: “Signore, tu sai che ti amo”? Perché non avere un'applicazione nel cellulare che ci permetta di ascoltare la Bibbia mentre guidiamo o andiamo in autobus o in metro (ce ne sono moltissime e quasi tutte gratis)? Perché non leggere un libro cristiano anziché un romanzo che al massimo non farà altro che intrattenerci?

Qualsiasi sportivo esperto sa che la chiave del successo non sta tanto nell'intensità dello sforzo, ma nella sua ripetizione continua. Con lo spirito succede lo stesso: sei quello di cui ti nutri e l'unico responsabile di te stesso, amico mio, sei tu.

Lo dice uno che a forza di sbagliare ha imparato lentamente, come un asino. Ma i poveri asini devono avere qualcosa di buono se il Signore stesso non ha avuto obiezioni a entrare a Gerusalemme su uno di loro.

E allora forza!

[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]

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