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L’idolatria del corpo

Mannequins dénudés en vitrine – it

L'imaGiraphe / Flickr / CC

Dimensione Speranza - pubblicato il 18/03/14

Come la corporeità e il suo uso sono connessi immediatamente al potere e al denaro?

Rilettura dei dieci comandamenti

L’idolatria che connota il nostro tempo, gli altri "dei" che popolano il nostro farci "dio", ha nel corpo e nella sessualità l’ultimo suo aspetto inquietante. Fatti di cronaca, nazionali e no, di continuo ci mettono di fronte a comportamenti compulsivi che nell’esercizio sfrenato della propria sessualità e nell’utilizzo dei corpi altrui vedono la conseguenza ultima del potere e del denaro. Uomini certamente non nel fiore dell’età appaiono insaziabili. Non li ferma l’età dei presunti partner; né importa che questi ultimi siano o no consenzienti.

Nella prospettiva del «non avrai altro Dio all’infuori di me» la nostra attenzione non si dirige al buon uso della sessualità, al rapporto uomo-donna e alle sue regole, oggetto specifico di altri comandamenti. Il nostro discorso legge piuttosto la corporeità e il suo uso nella connessione immediata al potere e al denaro, e dunque al delirio di onnipotenza, vero e proprio atto di idolatria, di auto-sostituzione a Dio. Va rilevato che in tutto ciò emerge pesante l’ipoteca di genere (tema che troveremo anche più avanti nel nostro percorso sui comandamenti). Infatti, il corpo oggetto della compulsione selvaggia è un corpo femminile o un corpo ad esso assimilabile, quello di un bambino ad esempio.

L’immaturità di quest’ultimo, l’assenza di una soggettualità sessuale attiva lo assimila (culturalmente, ed è discorso che viene da lontano) al corpo femminile e ne fa oggetto della propria brama di possesso. Un corpo immaturo suscita in chi ha sperimentato tutto e può comprarsi tutto la sponda ultima, che esalta la propria presunta onnipotenza. Da questa spirale perversa è attraversato ogni potere, anche quello "sacro". Il delirio di onnipotenza ad esso legato ci appare se possibile più perverso e ripugnante, ma credo si tratti ancora una volta nient’altro che del potere, il cui spettro ciascuno elabora secondo la presunzione che ne ha quanto al possederlo e all’esercitarlo.

La pedofilia, tragedia ultima

Non mi è possibile eludere il nodo della pedofilia, tragedia ultima dell’inautenticità ecclesiale. Ho già ripetutamente affermato che il nostro sdegno non può ignorare l’enormità di un fenomeno di cui l’abuso ecclesiastico è piccolissima parte. Né d’altra parte possiamo ridurre il nostro "peccato" alla sola pedofilia. Se mai essa è facile alibi per eluderne altre forme subdole e molteplici. Potere e denaro ci fanno idolatri. La Chiesa non ne sta fuori. E tuttavia, prima di dirigere l’attenzione all’idolatria del corpo proprio e del corpo altrui espressa dalla pedofilia chiediamoci cosa la determina. Cosa trasforma in orco un buon parroco, un buon prete, un buon vescovo. Non è forse la presunta contiguità al sacro a fare eludere ogni legge? Non ci si sente talora, proprio nelle forme di una sessualità pervertita, attori di una "azione sacra"?

Il corpo stesso non diventa organo di trasmissione del sacro posseduto in un’esaltata comprensione di sé che non distingue più il servizio dalla propria autoaffermazione? Non c’è alle spalle il "potere", tanto più fuori ogni regola quanto più prossimo a Dio; non c’è la pretesa di rappresentarlo (meglio di sostituirsi a lui) alle spalle di un atteggiarsi che disonora la comunità ecclesiale? Mi chiedo, insomma, se non è certa formazione, certo delirio avulso dalla ratio ministeri a creare, legittimare questi mostri. Ed è inutile l’esecrazione e la condanna se non si avverte la responsabilità a monte, quella appunto legata al protrarsi di un modello potente, idolatrico, sostitutivo di Dio, più che a suo servizio. Tanto più che spesso pedofilia e intransigenza si legano insieme. I soggetti di cui parliamo sono dispotici, autoreferenziali. Ammantano di spiritualità la loro perversione. Manipolano le coscienze dei fedeli, piuttosto che condurli a maturità e partecipazione.

No, non credo davvero che si debba cercare nel nostro tempo, nella sua deriva relativistica, nella sua crisi morale, la legittimazione dell’abuso. Non condivido l’opinione che la Chiesa non vi abbia alcuna responsabilità e che essa debba venire unicamente imputata alla congiuntura culturale. E, ammesso pure che le cose stessero cosi, resta il paradosso di una acquiescenza, di una incapacità testimoniale, di una inadeguatezza che chiedono di ripensare in profondità il senso dell’essere Chiesa in questo nostro tempo.

Posso, dunque abuso

Ma veniamo ai mostri che stanno fuori della Chiesa. Pedofili, ma non soltanto. Persone insaziabili dal punto di vista sessuale. Per loro, appunto, è solo questione di denaro. Possono comprare tutto e pretendono di comprare tutto. L’attività sessuale, sollecitata al massimo e al di fuori di ogni relazionalità autentica, è una sorta di esercizio estremo del potere che hanno o presumono di avere. Posso, dunque sono. Posso, dunque compro. Posso, dunque uso. Posso, dunque abuso. È triste costatare che nelle mani di questi potenti stanno le sorti economiche e politiche del mondo in cui viviamo. Ed è ancora più triste costatare come certe prestazioni suscitino plauso, invidia più che riprovazione. «Meglio per lui che può…».

Dicevo che l’idolatria del corpo è inseparabile dalla questione di genere. E se lo stupro, la violenza, la violazione di un corpo non consenziente si configurano in un certo modo – non possiamo dimenticare che a ragione o a torto vediamo elaborarsi teorie che provano a dame giustificazione – e si va dall’appello alla libertà sessuale, alla privacy, all’affermazione circa il reciproco tornaconto che accompagnerebbe anche la violenza sul minore, in certo qual modo sempre consenziente – si elabora altresì la tesi relativa alla legittimità del servirsi del proprio corpo per acconsentire alla libidine del potente così da partecipare del suo potere e del suo denaro. Insomma il corpo come legittimazione velocizzata della domanda di potere e denaro. Su questo versante la questione tocca soprattutto le donne, il loro uso disinvolto del corpo come strumento di potere.

Qualche mese fa le donne italiane sono scese a migliaia in piazza, facendo proprio lo slogan «Se non ora quando…». Si trattava di donne (suore e laiche, credenti e no, di destra e di sinistra) unite trasversalmente dall’indignazione verso la prevaricazione, l’offesa all’immagine della donna, disinvoltamente usata sessualmente. Queste donne si ribellavano dinanzi alla teorizzazione che il corpo giovane e bello sia la via più veloce per "fare carriera". Queste donne rivendicavano il diritto a pensare, a produrre, a realizzarsi fuori dalla perversa ovvietà che fa l’apparire più importante dell’essere, la forma esteriore più importante di ciò che sta dentro.

Troppe volte avevano colto irrisi la passione e il talento professionale e politico in nome di una bella forma, poi solo in apparenza legittimata a compartire il potere. A pensarci bene, lo spettacolo che certa politica ci mostra è quello di un harem "virtuale" nel quale le "preferite" sembrano compartecipi del potere. Ma resta il dubbio che siano cinicamente usate, anestetico bello (e consenziente), utile quanto basta, di fatto corollario suadente, espressione vistosa e straripante del potere e del denaro (maschile) che lo supporta.

Idolatria dell’autoaffermazione

La domanda è dunque: perché le donne accettano d’essere manipolate? Perché padri, madri, fratelli le incoraggiano a sgomitare in questo mercato. Perché alla politica si acced
e più dallo spettacolo che non da studio e preparazione congrua e orientata? L’effimero di tante belle figurine, la delusione (presto rientrata) che tante volte manifestano di fronte ai niet quando provano a dissentire, ci lascia l’amaro in bocca. Valeva la pena di fare tante battaglie, se alla fine per le donne il potere e il denaro passano necessariamente dall’ effimera bellezza e dall’alcova? L’idolatria del corpo, insomma, è aggravata da strumenti nuovi. Né basta la consapevolezza, la coscienza circa lo scopo da raggiungere (il potere e il denaro) a far credere che qualcosa sia cambiato.

Usare coscientemente il proprio sex-appeal non cambia i termini del problema. E idolatra tanto chi se ne serve, tanto chi si fa usare. Resta patetica la fatica che tanta idolatria produce. L’accanimento per ottenere un corpo bello, sano, giovane. I tentativi di arrestare il tempo. Il modularsi secondo l’aspettativa altrui. Uno sforzo infinito a scapito della mente e del cuore, ma soprattutto diretto a soddisfare il proprio io. La tragedia dell’idolatria è quella narcisistica della autoaffermazione. L’idolatra non si china sugli altri, li ignora. Persegue solamente il suo Dio. Gli sfugge che non è lui il Creatore e non è lui il Salvatore. Gli sfugge il limite che lo connota come creatura. Gli sfugge che ciò che dà senso pieno alla vita è l’essere per gli altri. L’essere, non l’apparire. Ma l’idolatra finge di ignorarlo. Appunto, facendosi altri dei.

(da Vita pastorale, n. 7, 2011)

qui l’articolo originale

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