Anche il cristianesimo, fedele alla sua radice ebraica, è religione del riso e del sorriso
L’ebraismo è anche la religione del riso: Scholem Aleichem, scrittore ebreo autore di deliziosi racconti dove il pianto sa mescolarsi delicatamente al riso e al sorriso (basti ricordare Cantico dei Cantici. Un amore di gioventù in quattro parti, Adelphi, Milano 2004), non esita a dire: “L’identità ebraica è uno scoppio di risa”. Non a caso il primo ebreo per nascita ha per nome Isacco, Yizhaq, che vuol dire “colui cui Dio sorride” o “possa Dio sorridere”, dove il riferimento è al riso di Sara di fronte alla notizia che da lei bella, ma ormai non più giovane, nascerà un figlio, ma è non di meno al sorriso di Dio, che scompiglia i calcoli umani e si diverte a sfidare Abramo a credere nell’impossibile possibilità del Suo amore.
Una delle feste più care alla coscienza collettiva d’Israele è quella di “purim”, festa della gioia per il dono della salvezza ricevuta da Dio per mano di una donna, Ester, festa dello scampato pericolo e del rivolgimento delle sorti, dove il cattivo Aman muore sul palo cui voleva appendere il giusto Mardocheo, e perciò festa dello scambio dei destini, rappresentato mediante le maschere in cui ciascuno deve rappresentarsi nel segno del suo contrario (con fine auto-ironia il professore serioso si vestirà da pagliaccio, il ricco avaro da generoso mendicante, il poveraccio da gran signore, da donna giovane e bella chi obiettivamente non sembra più esserlo…). L’ebreo che ride di Moni Ovadia (Einaudi, Torino 1998) è una gustosissima raccolta di esempi di questa sapienza del riso e del sorriso, che sa dare consigli anche all’Altissimo: come quando il povero Ebreo, cui è capitato veramente tutto il negativo possibile, sussurra timidamente all’Eterno queste parole: “Noi Ti ringraziamo, Signore del cielo e della terra, d’averci scelto e prediletto fra tutti i popoli. Ma un’altra volta, non potresti scegliere qualcun altro?”.
Anche il cristianesimo, fedele alla sua radice ebraica, è religione del riso e del sorriso: basti a mostrarlo una figura come quella di San Francesco, “il giullare di Dio”, o una tradizione, diffusa nel Medio Evo europeo, quale quella del “risus paschalis”, che prevedeva il racconto del maggior numero possibile di barzellette durante la notte di Pasqua (non tutte proprio edificanti…) perché dappertutto esplodesse la gioia, solo sentimento consono alla vittoria pasquale della vita. Forse anche per questo San Filippo Neri, detto “Pippo il buono”, non riusciva a vedere altra via per l’annuncio e la sequela di Gesù che quella di un amore lieto, capace di vivere e dare gioia, di ridere e di sorridere davanti al mondo e alla vita. San Tommaso Moro, a sua volta, Lord Cancelliere d’Inghilterra morto sul patibolo per non aver voluto cedere ai compromessi morali, alle sopraffazioni e alle lusinghe del Sovrano, non esita a pregare così: “Signore, donami una buona digestione e anche qualcosa da mangiare. Donami la salute del corpo e il buon umore necessario per mantenerla. Donami un’anima semplice che sappia far tesoro di tutto ciò che è buono e non si spaventi alla vista del male, ma piuttosto trovi sempre modo di rimetter le cose a posto. Dammi un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri, i lamenti e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo ingombrante che si chiama ‘Io’. Dammi, Signore, il senso del buon umore, concedimi la grazia di scoprire un po’ di gioia e di farne partecipi gli altri”.
Se ci si chiede perché ebraismo e cristianesimo sono religioni del riso e del sorriso, la risposta può forse essere trovata nel fatto che riso e sorriso possono nascere solo nello spazio che sta tra la prossimità e la lontananza. Se vivi solo la prossimità, ne resti schiacciato, non riuscendo a respirare e a guardare oltre le sfide e i problemi. Se vivi solo la lontananza, rischi di costruirti un mondo ideale, evadendo dalla realtà. Se vuoi aprirti alla verità della vita, devi stare a metà tra prossimità e lontananza: e allora sorriderai. È la condizione del popolo ebraico, totalmente radicato tra gli altri popoli, e tuttavia popolo eletto. È lo scandalo del Cristo, Uomo tra gli uomini, appeso alla Croce e tuttavia Figlio di Dio. Questi paradossi creano lo spazio del riso e del sorriso. Il ridere può essere salvifico, come quello dell’Eterno che agisce con misericordia di fronte all’ottusa incapacità di accogliere il nuovo dimostrata da Sara e da Abramo; o conoscitivo e liberatorio, come quello di Abramo e Sara che finalmente cominciano a capire qualcosa davanti alla fantasia dell’Eterno. In realtà, ad aver paura del riso non è la fede, che per sua natura deve essere umile e aperta all’Eterno, terrena nella sua povertà e celeste nei suoi orizzonti e nella grazia che la pervade, ma il potere di questo mondo, che – proprio perché umano, troppo umano – teme di esser colto in contraddizione nello scontro fra le sue pretese e la sua obiettiva limitatezza.