Decentralizzazione ed anonimato sono i caratteri principali di questa valuta “digitale”
Dalla fine del baratto in poi, ogni società ha avvertito il bisogno di creare una propria moneta. Per ogni nazione, addirittura, questa è diventata nel tempo un simbolo identitario molto forte: ripensiamo al Marco tedesco, la cui solidità connotava anche il tratto principale che si riconosce tuttora a quel popolo, non solo per quanto riguarda la sua economia. Oppure, in senso ben diverso, pensiamo alla graticola su cui si muove fin dalla sua nascita l’Euro, che nel suo stesso aspetto si disperde nelle tante facce di nazioni diverse che faticano ancora a riconoscersi in un’unione. Ebbene, anche nella comunità transnazionale e decentralizzata per eccellenza, quella di Internet, non poteva mancare una “valuta”, o meglio, una tipologia di “valute”. Il bitcoin, infatti, nato nel 2009, è il capostipite di una famiglia, quella delle crittovalute, che negli anni successivi è cresciuta fino a contare una trentina di esemplari: come indica il nome che le definisce, si tratta di valute paritarie, digitali e decentralizzate, dal momento che non dipendono da un’unica autorità finanziaria legittimata ad emetterla o a regolarne le fluttuazioni, ma possono essere generate o utilizzate in transazioni online da chiunque abbia i titoli per gestire determinati codici crittografici.
Il bitcoin, ad oggi la moneta virtuale più diffusa ed usata, si lega al carattere dell’anonimato fin dalla sua nascita, dal momento che l’identità del suo creatore, o del team di creatori, è coperta da uno pseudonimo alquanto esotico, Satoshi Nakamoto. Ma cosa significa davvero “moneta virtuale”? Significa che per quanto possa essere utilizzata per acquisti online di oggetti reali, di questa moneta non esiste una versione “reale” – cioè pezzi di metallo o banconote che possano riempire i “valigioni” visti in tanti film – ma esistono solo quantità nominali, che possono essere spostate da un computer all’altro. Il bitcoin, o meglio, il protocollo crittografico a quello riferito, produce delle unità di “proprietà digitale” che possono essere trasferite da persona a persona, impedendo però che una singola unità possa essere spesa due volte. Per capirci meglio, se il web e le transazioni economiche che lì si svolgono fossero una versione planetaria del vecchio Monopoli, il bitcoin sarebbe la valuta che serve per comprare case ed alberghi o per pagare le fastidiose multe che ogni tanto ci toccavano pescando la carta degli “imprevisti”.
Come vengono generati i bitcoin? Ci pensa un programma in open source condiviso da una serie di computer collegati in rete e in grado di risolvere complesse operazioni matematiche: questo processo di generazione dei bitcoin si chiama mining. Ogni unità bitcoin è caratterizzata da un indirizzo pubblico e da una chiave privata, che altro non sono che lunghe serie di lettere e numeri che legano ogni bitcoin un’identità specifica. Se questa identità, che riporta a coloro che effettuano le transazioni, rimane nascosta, ciò che in teoria dovrebbe garantire la “trasparenza” di ogni utilizzatore di questa moneta è il fatto che ogni bitcoin utilizzato per operazioni online viene segnalato nella blockchain, un registro delle transazioni pubblico e condiviso tra tutti gli utenti del mondo bitcoin. Eppure, nonostante l’esistenza di questo documento anch’esso virtuale, spesso gli spostamenti di denaro rimangono assai difficili da tracciare, come testimonia il fatto che questo sistema monetario è assai molto popolare tra coloro che si dedicano ad attività illecite di qualunque tipo. In un articolo del gennaio scorso pubblicato sul Foreign Affairs, leggiamo infatti: “Non tutti gli effetti dei bitcoin sono positivi. E la promessa dell’anonimato li rende particolarmente adatti alle transazioni illecite. Un esempio noto è quello di Silk road, un mercato online di stupefacenti illeciti e carte di credito rubate nato nel 2011. Provvisoriamente chiuso dalle autorità statunitensi nel 2013 (e riaperto a distanza di un mese), Silk road è finito al centro dell’attenzione per la sua capacità di farsi apertamente beffe della legge. Con un giro d’affari di poco più di un milione di dollari al mese, tuttavia, Silk road rappresenta un caso relativamente modesto. Piuttosto, bitcoin potrebbe diventare uno strumento per il riciclaggio di denaro su vasta scala. In altre parole, potrebbe essere usato per transazioni che di per sé non sono illecite ma che aiutano a occultare l’origine di denaro ottenuto attraverso attività illecite”.
Come si può intuire, tuttavia, quella della tracciabilità non è l’unica problematica che si porta dietro questo sistema monetario. Un’altra che è particolarmente ingombrante è collegata proprio a quella che i suoi sostenitori considerano come un suo punto di forza: parliamo della sua gestione decentralizzata. Mentre nel caso delle valute tradizionali qualunque Stato può stabilire quando e quanta valuta stampare e distribuire, attraverso le proprie banche centrali, come detto il bitcoin non fa riferimento ad alcuna banca centrale. Sono gli utenti che, oltre a poter comprare o vendere bitcoin (o frazioni degli stessi) in cambio di monete tradizionali, attraverso il mining possono emettere valuta, e l’unico limite che essi incontrano è che il numero massimo di bitcoin che possono essere generati non deve superare i 21 milioni. Ma se nessun istituto bancario può immettere sul mercato nuovi bitcoin, svalutare quelli già in circolazione o comunque tenerne sotto controllo la stabilità valutaria, allora essi sono per natura soggetti a fluttuazioni enormi che li rendono straordinari strumenti di speculazione finanziaria. Se ad oggi un bitcoin vale circa 480 euro, nel 2013 il suo valore si è divertito a correre sulle montagne russe, oscillando dai 7 euro fino agli 865 euro.
Per questi motivi, da anni i bitcoin sono al centro di un dibattito nel quale si confrontano apologeti e denigratori. Tra i primi, ad esempio, troviamo coloro che si sono arresi di fronte all’evidenza dell’estrema popolarità di questo strumento finanziario: tra questi è Benjamin Lawsky, responsabile dell’autorità di vigilanza finanziaria di New York, che il 29 gennaio scorso ha dichiarato che ormai i benefici potenziali di bitcoin superano i rischi, e quindi tanto vale tentare di regolamentarne la tecnologia. Proprio per questo, New York potrebbe presto fregiarsi del merito di essere il primo Stato americano a scrivere regole per chi usa i bitcoin. Gli stessi, tuttavia, sono considerati con molto sospetto dalle autorità di quello che è il secondo paese, dopo gli Stati Uniti, nel quale il software dei bitcoin è il più scaricato, e cioè la Russia: il governo di Putin sta mettendo a punto le regole di quello che sarà un giro di vite che ne limiterà la loro produzione e circolazione. Un allarme autorevole sul loro uso è arrivato pochi giorni fa anche da Wolfgang Munchau, giornalista del Financial Times, che il 2 marzo ha scritto: “Nella forma attuale i bitcoin non sono all’altezza del loro compito a causa dei limiti della base monetaria: se fossero già la nostra valuta, nella migliore delle ipotesi funzionerebbero in modo analogo al sistema aureo (sistema in cui la quantità di moneta in circolazione è legata alla quantità di oro posseduta dalla banca centrale), e questa è più o meno l’ultima cosa che si possa desiderare nella fragile economia globale…Le banche centrali dispongono degli strumenti per assicurare la stabilità dei prezzi e possono regolare la loro politica monetaria p
er ridurre le fluttuazioni del ciclo economico. E tutto questo può avvenire in modo sicuro: le zecche e le banche centrali sono sorvegliate da agenti armati. La sicurezza di internet non è neanche paragonabile. E se è vero che un sistema monetario istituito d’autorità può fallire solo in teoria, Mt. Gox, un’azienda che emette bitcoin, è fallita nella realtà”. Moneta virtuale, dunque, ma come ormai la nostra esperienza su internet ci ha insegnato, le ingerenze del virtuale nella vita reale producono effetti spesso devastanti, per gli individui e per le nazioni: per questo, mentre i primi possessori di bitcoin diventavano milionari – lo stesso pioniere del web Marc Andreessen, il padre di Mosaic (il primo browser di larga diffusione) e Netscape, ha investito cinquanta milioni di dollari nella moneta virtuale – abbiamo dovuto assistere anche al triste spettacolo delle autorità che sequestravano milioni di dollari al mercato del Silk road.
Viene da chiederci, quale può essere la prospettiva della Dottrina Sociale della Chiesa nei confronti di questa economia virtuale? Se larghi strati dell’economia mondiale stanno via via riconoscendo l’imprescindibilità, oltre all’utilità, di alcuni suoi principi, la finanza sembra ancorata ancora a schemi ormai obsoleti, incoscientemente connotati da una volatilità che si è ormai svelata da tempo come (auto)distruttiva. Ne abbiamo parlato con un esperto di economia finanziaria e di Dottrina Sociale della Chiesa, Oreste Bazzichi, docente di Filosofia Sociale alla Pontificia Università Teologica S.Bonaventura, Seraphicum.
Che visione ha la Dottrina Sociale dell’economia virtuale ormai sempre più diffusa, di cui i bitcoin sono solo una delle ultime espressioni?
Bazzichi: Nella Dottrina Sociale della Chiesa c’è stata un’evoluzione nel concetto dell’uso del denaro. Lo sappiamo tutti che, sia a partire dalla Sacra Scrittura, ma già nella filosofia greca, il denaro e il suo utilizzo erano visti negativamente. Anche nella Dottrina della Chiesa c’è stata un’evoluzione, un percorso, che oggi è giunto ad una concezione positiva: ovverosia, la funzione del denaro è positiva se è ordinata all’economia, quindi se si considera il denaro come collegato all’economia reale. Dall’altra parte, c’è una valutazione negativa per quanto riguarda l’uso finanziario del denaro, destinato al solo interesse finanziario, senza avere alcun radicamento nell’economia reale. Quindi la Dottrina Sociale della Chiesa ha trovato una sua voce su questo proprio nel suo ultimo documento emesso dal Pontificio Consiglio Giustizia e Pace nell’ottobre 2011, a tre anni dallo scoppio della crisi economico-finanziaria, che affrontava alcune questioni relative all’economia finanziaria e quindi all’uso del denaro. In pratica in questo documento si dice che la funzione del denaro deve essere legata ed ordinata all’economia. E’ proprio in questo senso che si auspica la presenza di una specie di organismo internazionale, una sorta di banca mondiale, dove ci sia questa autorità che è indispensabile e che governi il valore della moneta. Questo valore dev’essere concepito come già dicevano i francescani del 1300, cioè non come qualcosa di intrinseco alla moneta, ma in quanto inserito nel contesto socio-economico. Quindi in questo senso non deve essere moneta in sé, né una finanza per la finanza. E il secondo punto che si metteva in luce, all’interno del documento, era quello di una tassazione della rendita finanziaria. Si parla di questo anche nelle proposte economiche che si fanno oggi, che limiterebbero i mercati finanziari con delle regolamentazioni, soprattutto tenendo conto del fatto che la finanza viaggia quasi per la metà attraverso internet, e che il denaro ormai viaggia in pochi secondi da una parte all’altra del globo.
L’idea di una “banca centrale globale” è del tutto contraria alla decentralizzazione che l’economia virtuale persegue, non è così?
Bazzichi: Sì, questa è una mancanza di controllo che la Dottrina della Chiesa esclude, dove di fatto si usano “le fredde logiche del computer”, le chiama così il documento del Pontificio Consiglio. Quando si parla di “fredde logiche del computer” si intendono attività dove si compra e si vende secondo la convenienza, seguendo la logica della finanza per la finanza, che poi è la causa della crisi da cui stentiamo ad uscire. Quindi, si ammette che ci sia la moneta, necessaria per gli scambi, però essa deve tornare ad essere al servizio dell’economia reale, della società, e non far prevalere l’interesse finanziario, nel quale la moneta diventi solo profitto. Devo dire che nel Compendio della Dottrina Sociale, che però risale al 2004 cioè ad un tempo antecedente la crisi, si parla poco di moneta, si parla più di “trasparenza”, di fluttuazione dei cambi, si parla molto di speculazione sui Paesi poveri, e su come risolvere il problema internazionale. Invece nel documento del 2011 si prendono posizioni più chiare sulla finanza, ed emergono da lì queste due proposte: ritornare ad una regolamentazione come era quella di Bretton Woods, dei mercati finanziari, attraverso appunto una banca mondiale, un organismo tipo ONU, ma che funzioni meglio, e poi che ci sia una limitazione dei mercati finanziari che si muovono attraverso internet. E’ importante che anche su questo ci sia la presenza di una banca, in grado di intervenire.