In Pakistan giovani cristiane, in parte minorenni, vengono rapite e costrette con minacce di morte a convertirsi all'islam
di Daniel Gerber
“E io ti ammazzo!”, urla Quaiser da sopra la spalla e gira verso il basso la mano destra. Il motore da 125 di cilindrata della Honda rossa ulula, la moto scatta in avanti e la ruota anteriore s’impenna. Teena, che è incinta, perde la presa e cade con un grido sull’asfalto caldo. Alcuni passanti inorriditi si affrettano a prestare aiuto alla futura mamma mentre il marito fa dietrofront, ma senza troppo curarsi di soccorrere la giovane donna, che può dirsi fortunata che in quel momento passino pochi risciò, auto e moto. Le persone accorse pensano a un incidente e non sospettano neppure che Quaiser abbia intenzionalmente messo in pericolo la vita della moglie.
Teena non voleva vivere con quell’uomo: la giovane cristiana era stata rapita, costretta a convertirsi all’islam e fatta sposare con ogni sorta di minacce. Se non avesse obbedito, non soltanto sarebbe morta, ma avrebbe messo a repentaglio la vita del padre e dei fratelli. Oppure avrebbero accusato suo padre di “blasfemia”. Con una simile imputazione oggi in Pakistan si perde ogni sicurezza e talvolta anche la vita. E se l’accusa è palesemente falsa, non importa. Le forze brutali emergenti nel Paese non si fanno scrupoli di ricorrervi per mettere con le spalle al muro i membri delle minoranze.
Stringendo a sé il bambino Maria aveva aperto la porta senza fa rumore ed era scivolata fuori lasciandosi inghiottire dall’oscurità. Finalmente, dopo parecchi tentativi falliti, e dopo più di un anno di percosse e di oppressione, la giovanissima madre, ancora minorenne, sentiva di nuovo l’odore della libertà. Troppo a lungo era rimasta in quella famiglia.
L’avevano rapita, l’imam aveva certificato il suo “passaggio”, estorto, all’islam e il “matrimonio” con un uomo che aveva il doppio dei suoi anni. Una notte, quando il portone d’ingresso era già sprangato, lei aveva trovato la chiave. Di primo mattino, mentre il quartiere era immerso nel sonno, era corsa a un incrocio dove stazionavano alcuni risciò. Tuttavia il denaro le sarebbe bastato a malapena per pochi chilometri e non di certo per il viaggio di tre ore da Gujranwala a Lahore. All’adolescente erano venute le lacrime agli occhi e per colmo di sventura aveva riconosciuto anche l’uomo sul lato opposto della strada: un membro anziano del clan, diretto alla mosche per la preghiera mattutina. Ora si era fermato e la fissava….
Teena e Maria: il loro destino rappresenta quello di innumerevoli altre donne. E in questo mondo quasi non hanno avvocati che perorino la loro causa. Si preferisce distogliere lo sguardo. Tuttavia, minimizzare è fuori luogo quanto commiserare.
Anche Asia Bibi rappresenta tante altre. Dopo un futile bisticcio si è ritrovata circondata da un branco infuriato di cui facevano parte anche alcuni dignitari religiosi islamici che gettavano benzina sul fuoco. L’esile donna era stata arrestata. “Blasfemia” era l’accusa, che lei però ha sempre respinto. Dopo essere rimasta in prigione per più di un anno senza mai venire interrogata, il tribunale l’ha condannata all’impiccagione.
A centinaia vivono di stenti come lei. Alla fine però nel mondo libero si è levato un grido. Alcune organizzazioni per i diritti umani hanno chiesto la grazia per Asia Bibi e perfino il Papa ha rivolto un appello pubblico per la libertà della donna cristiana. I religiosi islamici si sono mostrati meno tolleranti: Asia non sarebbe stata scarcerata in alcun caso. L’imam della storica moschea Mohabat- Khan di Peshawar ha messo addirittura una taglia di 500.000 rupie sulla sua testa nel caso venisse liberata.
Esemplare il processo, parecchi anni fa, a una cristiana di nome