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Cyborg: tra nuove biotecnologie e domande antropologiche

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In gioco c’è il concetto di vita e di corporeità, una nuova sfida per la teologia morale
Il termine cyborg — nato dall’unione delle parole inglesi cybernetic e organism (organismo cibernetico) — è stato coniato agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso da due ricercatori della Nasa, Manfred E. Clynes e Nathan S. Kline. La definizione del termine è però stata precisata in questi ultimi anni dalla National Science Foundation (NSF), organismo governativo degli Usa, che considera il cyborg come un sistema complesso composto da parti biologiche e dispositivi (devices) nanotecnologici. Terminator e Robocop sono stati esemplificazioni fantascientifiche del tema, tuttavia la verità è un’altra: «I cyborg non sono qualcosa da temere in un lontano futuro, già siamo cyborg». Ad affermarlo è un recente volume di Paolo Benanti, religioso francescano, già ingegnere elettronico, il quale, esplorando i più recenti sviluppi tecnologici, si interroga su quali valori umani e morali sono in gioco quando una persona diviene un cyborg, un essere cioè che è un mix tra biologico ed elettronica. Come integrare sviluppo tecnologico e rispetto della dignità della persona? Quale ruolo assume la riflessione teologico-morale nel dibattito in corso? Sono queste alcune domande che il volume affronta con rigore scientifico e che qui riprendiamo.

Cosa è un cyborg e quali interrogativi morali pone?
Gli esempi per definire un cyborg sono molti. Dalle protesi che sostituiscono organi o tessuti, come sono i pacemaker, alla gamba meccanica, detta flex-foot, di Oscar Pistorius, che ha partecipato alle ultime Olimpiadi. Dai microprocessori inseriti nel braccio o nel sistema nervoso centrale alle persone che utilizzano silicone o citrato di Sildenafil (Viagra). Dall’impianto cocleare, un dispositivo elettronico inserito all’interno dell’orecchio per aiutare gli audiolesi a recuperare l’udito, ai calmanti, alle anfetamine e alle droghe psicotrope che si somministrano ai bambini quando manifestano problemi di concentrazione e di iperattività. Nel volume (P. BENANTI, The Cyborg: corpo e corporeità nell’epoca del post-umano, Assisi (Pg), Cittadella, 2012) è anche possibile approfondire il cyborg in ambito militare, in cui l’unione uomo-macchina è realizzata con i droni, gli aerei senza pilota teleguidati a distanza, oppure con i progetti di «realtà amentata» che mirano a realizzare soldati telecomandati. L’Autore estende la definizione di cyborg anche alla convergenza di milioni di menti nella rete elettronica di comunicazione planetaria, al punto che anche internet e un internauta possono essere considerati un cyborg.

Tutti questi esempi sono accomunati da un principio su cui si fonda il pensiero postumanista: la fusione tra uomo e macchina avviene attraverso la frontiera dei processi informativi. Per il postumanesimo le informazioni conservate ed elaborate da ogni essere vivente definiscono la natura e l’essenza di ogni altro elemento che lo componga, compresa la sua materialità. Così per una cellula le informazioni contenute nel DNA (tutte le informazioni sulla vita e sullo sviluppo di quella cellula) sono più importante di ogni altro elemento materiale della cellula stessa, inclusi quegli elementi biologici che compongono il DNA.

Questo porta i postumanisti a ritenere la corporeità un sub-strato biologico e un accidens della storia più che un’inevitabilità del darsi della vita. La posta in gioco è alta e rischiosa. Cambia il concetto di vita: è «viva» l’entità che contiene e codifica informazioni, mentre il valore della vita è dato dalle informazioni che ogni entità processa. Inoltre considerare superiore l’informazione sulla materialità porta a cancellare, la linea di separazione tra naturale e artificiale. La vita, ridotta a conservare e ad elaborare informazioni, non si riesce più a distinguere dagli apparati tecnologici che raccolgono, elaborano e trasmettono tali informazioni.

È per questo che, secondo Benanti, «per i postumanisti il cyborg, capito come dimensione di informazioni trasmesse ed elaborate, rende la vita una macchina che elabora informazioni, e le macchine un qualcosa di vivo nel momento in cui processano informazioni».
L’«incunearsi» di componenti artificiali elettronici e informatici, ma anche chimici, trasforma l’organismo come un «sistema integrato», al punto da superare la distinzione classica tra umano (o animale) e meccanico, tra naturale e artificiale. Corpi bucati dal piercing ne sono un esempio: il metallo viene «incorporato» nella carne, fino a diventare un «corpo» solo. A queste provocazioni ideologiche dei postumanisti, non neutrali né a livello antropologico né morale, Benanti risponde attraverso una visione antropologica unitaria, ribadendo un dato teologico fondamentale che pone l’essere umano al centro della creazione: «la corporeità è costitutiva di ciò che siamo». Il valore del corpo non dipende dallo stato fisico nel quale si trova, ma dal fatto di essere un «corpo umano», nel quale è presente lo Spirito. È per questo che la persona non si configura mai come pura razionalità né come solo corpo né tantomeno come pura informazione da manipolare, ma come una unità totale, una «unitotalità unificata», che pensa, conosce, sceglie, decide, sente, ha paura, ama, prova soffre e gioisce. La corporeità quindi non è un accidens, come sostengono i postumanisti e i transumanisti, ma è il modo in cui l’intimità dell’uomo si svela e trova spazio nella materia del corpo. Se il corpo da una parte è ciò che permette di far affiorare il soggetto nell’unicità che esso rappresenta, dall’altra è «un epifenomeno della persona» che mantiene, rispetto a questa, un rapporto dinamico nel corso della sua esistenza spazio-temporale. Pretendere di andare «oltre» l’uomo modificandone la natura è un tentativo illusorio è anche intrinsecamente immorale.
Dall’analisi del quadro antropologico postumanista e transumanista, che fa da riferimento al cyborg, emerge una deriva che porta a leggere la dimensione dinamica della costituzione biologica dell’uomo e degli altri esseri viventi secondo una posizione scientista. Se però la conoscenza scientifica — considerata l’unica verità accettabile — ha bisogno di una implicita professione di ateismo, il dialogo con l’antropologia cristiana, la filosofia e la morale rischiano di essere negati dall’inizio. In questo modo definire il cyborg come sistema complesso uomo-macchina significa ridurre la vita a informazione scambiata ed elaborata da un sistema biologico.

Le informazioni che le molecole scambiano per via chimica all’interno del corpo umano assumono differenti significati, se si guarda alla singola cellula o al corpo inteso come tutto: le tecnologie cyborg si interfacciano a livelli diversi e creano significati diversi dell’umano. Questo aspetto sposta la domanda soprattutto sull’uomo e sul suo capirsi, che Benanti approfondisce nella prima parte del volume in cui emerge come tesi centrale che la realizzazione del cyborg è sia il frutto di un processo della storia, la cyborgizzazione, sia la comprensione nuova di una cultura.

La tecnologia ha un fine in sé o è al servizio di un fine (umano)?
In campo medico, per esempio, esistono farmaci pensati per migliorare le prestazioni in soggetti sani; ma questa scelta cambierà anche la definizione di salute, di malattia e di cura. Ecco alcune ambiguità
che l’Autore approfondisce nella seconda parte del volume. Le tecnologie belliche sono pensate come strumento di potere delle nazioni tecnologicamente avanzate sulle altre. Le grandi reti telematiche, invece di contribuire a diffondere il sapere, accentuano la differenza tra i Paesi ricchi e chi si trova in condizione di sottosviluppo (digital divide). Ci chiediamo: l’incremento di queste scelte tecnologiche può essere una minaccia o un progresso umano?
Sono da considerare manipolativi tutti gli interventi «contro natura» — favorire uomini-cyborg privi di emozioni, incapaci ad amare, non liberi di discernere ecc. — che violano tute quelle condizioni di umanità che rendono la vita moralmente degna di essere vissuta.

Prospettive etiche: la partecipazione allo sviluppo tecnologico
A giudizio di molti studiosi, le tecnologie cyborg potrebbero portare a numerosi squilibri economici e sociali; il diffondersi dell’enhancement (l’azione volta a rendere migliore qualcosa) potrebbe minare il principio di uguaglianza che è alla base delle democrazie moderne. Questo effetto potenzialmente dirompente delle tecnologie cyborg è legato al loro potenziale di innovazione tecnologica, che ha, per sua natura, una intrinseca capacità di trasformazione sociale. Per la dottrina sociale della Chiesa, l’innovazione tecnologica deve essere valutata come una componente dello sviluppo umano e in vista di un progresso dal volto umano che si concretizza in un impegno morale dei singoli e delle istituzioni nella ricerca del bene comune.
La realizzazione delle tecnologie cyborg, la loro diffusione e la loro regolamentazione dipendono da un insieme di decisioni che gli Stati e gli organi sovranazionali prenderanno nel prossimo futuro. Nella parte finale del volume Benanti formula e giustifica la sua proposta: «Questo tipo di gestione politico-economica può solo essere regolato con una governance».

Parlare di governance per le tecnologie cyborg «significa, da un lato, non delegare alle istituzioni la gestione dell’innovazione e, dall’altro, non assumere, a livello di singoli e di istituzioni, una passività nei confronti dell’enhancement dell’uomo e dei contenuti antropologici». La governance, così intesa, indica la cura, tanto dei singoli quanto dei gruppi, perché quella forma di progresso costituita dall’innovazione tecnologica contribuisca a generare un autentico sviluppo umano che sappia tutelare e ricercare il bene comune. L’urgenza rimane quella di individuare princìpi che regolino l’efficacia dello sviluppo della produzione tecnologica e la salvaguardia della dignità umana. Solamente una governance capace di dialogo e confronto tra le diverse competenze del sapere — scienze empiriche, filosofia, teologia ecc. — potrà permettere uno studio interdisciplinare del tema. In gioco, infatti, c’è il significato di «umano». Facciamo un esempio. Le identità di genere rischiano di annullarsi: il cyborg non è generato attraverso la modalità sessuata di trasmissione della vita; per questo non si parla di procreazione, ma di replicazione. Portando al limite questa prospettiva, è stato sottolineato che si perde l’«origine», poiché non si inscrive nella catena delle generazioni, e il «fine», poiché è continuamente rinnovabile . Il postumanesimo si illude di incrementare e «rendere eterne» non solo le prestazioni fisiche ma anche il benessere e la felicità interiore. Quando invece le vere conquiste passano attraverso le difficoltà, ma anche al dolore e alla morte intesa come momento di passaggio. Sarà importante trovare criteri per distinguere i confini tra la vita e la morte, tra un organismo e un altro, capire il valore della dignità personale e come articolarla in relazione a quella degli altri. Afferma Carlo Casalone («Cyborg», in Aggiornamenti Sociali 52 (2002) 165-168): «Sono i rapporti tra identità e alterità, e i diversi ambiti in cui essi si declinano, che sembrano determinanti per indicare quali cammini di umanizzazione possano oggi essere tracciati».

Proprio alla luce di queste considerazioni la teologia morale dovrebbe farsi carico di due particolari domande legate alla governance delle tecnologie cyborg. In primo luogo dovrebbe interrogarsi se sia corretto ed equo, in un contesto caratterizzato dalla scarsità di risorse, investire così tanto per l’enhancement, tenendo anche conto dei benefici che potrebbero venire dallo studio e dalle ricerche tecnologicamente più avanzate.
Per la teologia morale il criterio di umanità e di giustizia in un contesto di risorse limitate prevalgono su quelle di investire nella salute e nel benessere di una piccola parte dell’umanità.
In secondo luogo la teologia morale è chiamata ad aiutare a riflettere se le tecnologie che prevedono un flusso di dati sempre maggiori verso la persona non ne minaccino l’autoconsapevolezza e la capacità di agire in libera e consapevole responsabilità. Ma non solo: anche i princìpi del bene e del male che si riconoscono in coscienze mature e formate.
Il monito finale dell’Autore è quello di ricordare che il cyborg e l’enhancement emotivo-cognitivo potrebbero rivelarsi non come mezzi per vivere esistenze sempre più umane, ma come strumenti di controllo a disposizione dell’establishment politico-economico. Insomma, i cyborg, privato di una governance efficace e lontano da un’idea di uomo la cui dignità è unica e irripetibile, potrebbe essere l’estremo esito del controllo biopolitico sull’individuo.

Qui l’originale