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La sofferenza. Un bene o un male per l’uomo?

The painful quest of fertility junkies – it

© Emmanuel DUNAND / AFP

Dimensione Speranza - pubblicato il 06/03/14

Non è una fatalità, non è un castigo, ma viene dall'amore e porta all'amore

di Bartolomeo Sorge S.J.

La sofferenza è compagna inseparabile di ogni esistenza umana. C’è la sofferenza fisica del corpo, con l’esperienza della malattia, del deperimento organico, della morte. C’è la sofferenza morale dell’anima, più dilaniante di quella fisica, causata dall’ingratitudine, dall’abbandono, dal tradimento, dall’emarginazione, dal disprezzo e ancor più dalle proprie colpe. C’è la sofferenza psicologica, che spesso fa da corollario al dolore fisico e al dolore morale e si manifesta sotto forma di tristezza, delusione, pessimismo, scoraggiamento, depressione.

Talvolta, poi, queste diverse forme di sofferenza si sovrappongono una all’altra fino a trasformarsi in veri e propri flagelli sociali, come nel caso delle calamità naturali, delle epidemie, delle catastrofi, della fame e della guerra. Che dire dello sterminio di milioni di ebrei nei lager nazisti, delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, delle pulizie etniche, della sopraffazione di milioni di bambini innocenti? Tutte queste forme di sofferenza non sono altro che aspetti particolari del problema più generale del «male», che consiste nell’essere privati di un bene, del quale invece si dovrebbe disporre secondo l’ordine normale delle cose.

Di fronte a questi drammi, la ragione umana non può fare a meno d’interrogarsi: perché il male, perché la sofferenza? Se esiste un Dio buono e onnipotente, perché non interviene? Dov’era Dio ad Auschwitz?

Il dramma del male, in particolare della sofferenza degli innocenti, è un problema antico quanto l’uomo. Con esso si sono confrontati uomini di scienza e di cultura, filosofi, e artisti, non credenti e credenti, di tutte le fedi, di tutte le generazioni e di tutte le nazioni. Nonostante gli sforzi, però, la ragione da sola non è mai riuscita e non riesce tuttora a trovare una risposta soddisfacente, ma giunge al massimo a formulare ipotesi e spiegazioni insufficienti e fragili. Eppure percepiamo che quanto in un modo o nell’altro riguarda la vita umana, non esclusi gli elementi che a noi appaiono negativi, deve pur avere un qualche significato. Quale?

Non si può ignorare che, accanto e al di sopra delle risposte tentate dai pensatori d’ogni tempo, esiste una Parola rivolta all’umanità e contenuta nel Vangelo, con la quale non possiamo non confrontarci. Infatti, questa Parola illumina il mistero della presenza del male nel mondo e non esita ad affermare che anche il dolore, nonostante ogni apparenza contraria, ha un suo significato, un senso misterioso ma reale. Certo, per poter usufruire pienamente della luce di questa Parola, occorre accettarla con fede; tuttavia, anche chi non crede può trovare nel Vangelo un aiuto per giungere a dare un senso alla sofferenza, anche se essa rimane un mistero. Ecco perché, ogni persona di buona volontà non può non sentirsi interpellata dal messaggio cristiano di redenzione dal dolore, dall’ingiustizia e dalla povertà. Lo ha riconosciuto recentemente un noto filosofo non credente, il prof. Salvatore Natoli: «Tutta la logica [evangelica] dell’attenzione agli ultimi, il tema di farsi carico degli altri, di debellare le povertà, di liberare l’umanità dalle dimensioni più tremende di dolore […], il tema cristiano della redenzione come tale è interessante e anche chi non crede deve prenderlo in considerazione», poiché esso aiuta a trovare risposta a domande che tutti ci poniamo: «L’atrocità del male – che è un tema che attraversa tutte le religioni – può essere tollerata o è qualcosa di cui bisogna in qualche modo farsi carico? E, ancora, il male è un male indotto dalla cattiveria degli uomini o è un male naturale? Sono tutte domande che appellano a una redenzione a una salvezza e sulle quali il dialogo [tra credenti e non credenti] è necessario» (1).

Perciò, dovendo riflettere sul tema se la sofferenza sia un bene o un male per l’uomo, riteniamo che il modo migliore di affrontarlo sia integrare le risposte insufficienti della ragione umana con la luce che il Vangelo getta sul dramma del dolore e del male. È esattamente quanto ha fatto Giovanni Paolo II, dedicando una lettera apostolica all’argomento per mettere in luce il senso insieme soprannaturale e umano della sofferenza: «È soprannaturale – scrive il Papa -, perché si radica nel mistero divino della redenzione del mondo, ed è, altresì, profondamente umano, perché in esso l’uomo ritrova se stesso, la propria umanità, la propria dignità, la propria missione» (2).

Pertanto, grazie all’incontro tra la ragione e la fede è possibile giungere a comprendere in certa misura il senso della sofferenza; essa, cioè: 1) non è una fatalità; 2) non è un castigo; 3) ma viene dall’amore e porta all’amore.

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