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Gesù ha abolito il senso di colpa

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Fabio Bartoli - La Fontana del Villaggio - pubblicato il 05/03/14
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La Chiesa Cattolica spesso viene accusata di aver inventato il senso di colpa, come uno strumento di potere per opprimere la gente. Il primo in ordine di tempo credo che sia stato Nietzsche. Che peraltro, più onestamente, non se la prendeva con la Chiesa, ma con il suo stesso Fondatore.

In realtà però è vero il contrario. Non solo Gesù non ha inventato il senso di colpa, ma lo ha addirittura abolito.

Scalfari, con il tempismo che lo contraddistingue, se n’è accorto un po’ di tempo fa, anche se attribuisce l’invenzione al vicario. Svista comprensibile in chi arriva in ritardo di un paio di migliaia di anni.

Naturalmente, ciò che è stato abolito non è esattamente il peccato (e come si potrebbe? Equivarrebbe, che ci piaccia o meno, ad abolire questa meravigliosa, contraddittoria, fragile e magnifica creatura che è l’uomo), ma, per l’appunto, il senso di colpa, ed è stato abolito perché sostituito da un’altra cosa, una novità modernissima, eccezionale: il pentimento. C’è grande differenza tra senso di colpa e pentimento.

Il senso di colpa nasce in ultima analisi dall’orgoglio, è un senso di fallimento, la percezione di non essere stati all’altezza delle aspettative, di non aver saputo corrispondere ai propri ideali, alla propria percezione di sé.

In definitiva, è un sentimento terribile, perché è senza perdono.

Chi prova il morso del senso di colpa è di fronte al più spietato e inappellabile dei tribunali: se stesso. Ed a quel questore, a quel secondino, non c’è modo di sfuggire.

Per questo gli Ebrei osservando Gesù si chiedevano, pieni di stupore: “E chi mai può perdonare i peccati?”.

Ma Gesù ha ribaltato lo schema: tu non sei responsabile di fronte ad una legge, di fronte ad un ideale astratto, di fronte ad un’etica, più o meno trascendentale.

No, tu sei responsabile di fronte a una persona.

Responsabile. Cioè chiamato a rispondere. Perché responsabilità viene da respondeo.

E se rispondi vuol dire che c’è uno che ti interroga. Non un computer, non un ente astratto, non un tribunale impersonale, ma uno, un tu, una persona.

Chi ti interroga, chi ti costringe a confessare sul banco dei testimoni, non è l’etica, ma un Padre. Anzi, a ben guardare, uno che è morto per te, per salvarti, per poterti assolvere.

Nel tuo processo giudice, avvocato e testimone a favore sono la stessa persona, come potresti essere condannato?

Così il pentimento differisce dal senso di colpa in questo: non è il dolore per un fallimento, ma molto di più, è il dolore per aver tradito la fiducia di una persona che amiamo, il dolore di non aver saputo amare abbastanza in contraccambio.

Però questo significa anche che il perdono è possibile, perché, in definitiva, se invece di sentirmi in colpa, mi pento allora sono davanti ad un altro, non a me stesso.

Basterà quindi una parola di perdono, uno sguardo indulgente, una carezza gentile a rimettere tutto a posto, a restituirmi la fiducia che la relazione non è spezzata, che c’è sempre la possibilità di un ritorno.

Ritorno, che parola bellissima!

Non per nulla “pentimento” in Ebraico si dice Teshuva, che significa appunto ritorno.

E’ questo il pentimento, un ritorno. Mentre il senso di colpa mi paralizza, mi schiaccia nel mio stesso giudizio, il pentimento mi mette in cammino, mi porta a cambiare a crescere, (ri)stabilisce una relazione.

Dunque il tempo che inizia domani è un tempo di festa, non di tristezza.

E’ il tempo di rimettere al centro della nostra vita l’essenziale (è questo il motivo del digiuno), lasciando cadere tutto ciò che ci appesantisce e ci impedisce di sognare.

Perché con la pancia piena non si sogna, con la pancia piena si fanno incubi strani.

E’ un tempo di festa perché è il tempo di ritornare, di ritornare al futuro, cioè di mettere barra al centro e volgerci decisamente in quella direzione verso cui avremmo dovuto essere incamminati fin dall’inizio e che invece avevamo perso, sviati da tante chimere, quella direzione che è quella della Casa dove siamo attesi da sempre, per cui siamo stati creati.

E’ il tempo di un lavoro gioioso, un tempo di riscoperta della propria vocazione, di ritorno alla responsabilità, di accettare e godere la chiamata del gigantesco Tu che ci sta di fronte.

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