È finito il tempo dei sacramenti visti e organizzati come obbligo. E il resto che ruota intorno a ciò: la messa dei bambini, la messa degli adulti, preti che ancora si ostinano a leggere solo la prima lettura dimenticandosi della novità e bellezza del Nuovo Testamento, la prima chiesa degli apostoli, i canti che non si possono più sentire, le chitarre scordate, l’Alleluja e iSanctus che non sono più inni di gioia ma tristi litanie di un atteggiamento verso il sacro al limite della superficialità.
Il concetto della territorialità, almeno come lo abbiamo conosciuto in tutti questi anni, è cambiato. Non c’è più. La parrocchia è a-territoriale: è il "luogo", ma anche il "non-luogo", è la casa ma anche la via. Un agnostico o un "lontano" che è in ricerca può recarsi in una parrocchia che dista chilometri dal luogo in cui abita, perché forse lì, in quel luogo e in quel tempo, può ascoltare il soffio dello Spirito. Così come un credente che, ormai maturo nella fede, voglia seguire una messa, e un’omelia decente, in una chiesa che non sia la sua.
È proprio questo il punto: nessuno oggi può più dire "questa è la mia chiesa, questo è il mio tempio, questa è la mia parrocchia". Nessuno. Sono cambiate le latitudini del cuore e le longitudini dell’anima. Oggi siamo di fronte a un nuovo cristianesimo errante nel viaggio, nel cammino, un cristianesimo itinerante e orante, come d’altronde ai tempi di Gesù.
Una parrocchia che non sia itinerante e solidale non è più un luogo di Dio. Durante la recente alluvione di Roma, ad esempio, la parrocchia Sant’Alfonso Maria de’ Liguori è diventata un luogo di Dio perché ha accolto su di sé solidarietà e accoglienza. Ma è andata anche oltre: ha messo in moto energie, spiriti liberi, solidarietà diffuse e spesso nascoste. È andata in un "oltre" che annulla le distanze e rende il vangelo davvero alla portata di tutti, facendosi rete di solidarietà diverse e diffuse, alzando la voce, gridando lo sdegno, raccogliendo sorrisi e mani pronti a cooperare e aiutare.
Sì, è finita la parrocchia aggregante, quella che basta che ci si diverta, poi magari una preghierina, e passa tutto. È finito un certo modello di oratorio salesiano, e la chiesa-tempio vista solo come un eterno campo di calcio dove far convogliare bambini e ragazzi (perché altrimenti vanno in strada…), mentre c’è da educare le coscienze a mettersi in sintonia dello Spirito e ad "annusare" il gusto di Dio. È finito il tempo di una pastorale, per forza di cose, organizzata in pastorale ordinaria e straordinaria. Da rivedere l’iniziazione cristiana, i percorsi, i sacramenti con il loro lato obbligatorio e dogmatico. Perfino i consigli pastorali, che dovevano essere, almeno nelle intenzioni del Concilio Vaticano II, luoghi in cui crescere nella fede e nel servizio, dovranno essere rivisti. Così non servono più a nulla. Occorre che si tramutino in luoghi di cura e di tempo speso per far diventare le nostre parrocchie occasioni di incontro con lo Spirito e la Solidarietà.
Perché, invece, non facciamo tutti un bel salto in avanti e immaginiamo le nostre parrocchie non come prestazioni di servizi sacramentali e luoghi di pura aggregazione, ma case acc
oglienti dove poter ascoltare in santa pace il soffio dello Spirito e dove poter essere vicini all’Altro, anche quello che abita chilometri e chilometri da noi?
La rivoluzione di Francesco ci chiede una cosa sola. Scardinare la logica del "do ut des" ecclesiale. Scardinarla dal di dentro, attuando obiezione di coscienza individuale alla logica di una chiamata a un servizio che escluda l’Altro, chiunque esso sia, che pratichi divisione, che si nasconda dentro le mura del tempio.
Infine, sarebbe opportuno che gli adulti si dimenticassero dei servizi pastorali, lasciando spazio ai giovani. Liberassero energie per altro. Dedicassero tempo allo Spirito, e alla Solidarietà.
È il tempo di una Chiesa giovane, sorridente e liberante. La profezia evangelica passa da qui, da queste nostre parrocchie aperte al mondo. Vie di fuga e vie di ritorno. Tende per il deserto e case per il rifugio. Una strada da percorrere aprendosi con coraggio al nuovo. Non più servizi ecclesiali, ma vita vissuta. Da cristiani, fuori dalle mura del tempio.
Poi, certo, c’è da rivedere la formazione dei preti e il loro senso di Chiesa, cioè di ecclesia. Ma, di questo, se ne sta già occupando Francesco.
Che piaccia o non piaccia, la rivoluzione è iniziata.