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Lucio Dalla, l’ultimo giullare di Dio

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Àncora Editrice - pubblicato il 28/02/14
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Un viaggio dentro le parole e le idee di un artista estremamente creativo«Sono credente. Credo in dio come nell’arte, nel mare, nella vita.
Credo in Dio perché è il mio Dio.
Lo riconosco negli uomini, nei poveri soprattutto»
(Lucio Dalla)

«E se tra gli uomini
nascesse ancora Dio
gli ubbidirei amandolo
ma a modo mio
a modo mio
a modo mio…»
(Se io fossi un angelo)

 

4 marzo 1943 – 1 marzo 2012: sono gli estremi della parabola terrena di Lucio Dalla, un grande artista della parola e della musica che ha saputo raccontare l’allegria e la disperazione, la forza dell’amore, l’inquietudine del vivere. Curioso sperimentatore, spregiudicato nella sua ricerca artistica e umana, non ha mai nascosto la profonda religiosità che animava la sua visione del mondo ma anche la sua concezione dell’arte, perché – diceva – «Dio è tutto: forma e contenuto».

«Ma per te Dio esiste?». In un’intervista a L’Europeo del 1982, Dalla rispondeva così: «Assolutamente sì. Anzi questa è una delle poche certezze che non ho mai messo in discussione, né ho mai provato imbarazzo a parlarne in pubblico anche quando era di moda essere atei a tutti i costi. Ma a proposito del mio modo di credere in Dio, mia madre mi insegnò qualcosa di molto importante: che si deve essere religiosi ma non fino al punto di rinunciare alla propria indipendenza. E, di riflesso, mi insegnò la bellezza, la meraviglia del perdono. Solo perdonandoci siamo in grado di valutare per primi l’entità del nostro misfatto, e provarne pietà, tenerezza e anche rimorso…». Ecco: la libertà di essere e di vivere, l’indipendenza, è per Dalla l’unico modo possibile di vivere e di servire un Dio di libertà, quale egli immagina essere il suo Dio.

«Io so che gli angeli
sono milioni di milioni
e non li vedi in cielo ma tra gli uomini
sono i più poveri e i più soli
quelli presi tra le reti
e se tra gli uomini nascesse ancora Dio
gli ubbidirei amandolo
ma a modo mio a modo mio
a modo mio…» (Se io fossi un angelo, 1986).

Accanto a questa tensione religiosa fortissima, in cinquant’anni di conversazioni con il pubblico e la stampa Dalla ha sempre rivendicato il suo essere “un uomo di sinistra che va in chiesa”, o più scherzosamente, come amava definirsi, “un buon ex cattomarxista”, a sottolineare l’importanza nella sua vita del dialogo tra una convinzione politica e una fede apparentemente incompatibili.

La «teologia» di Dalla – o, se si preferisce, la riflessione di Dalla su Dio – è sempre anche una riflessione sull’uomo. E Cristo, il Dio fatto «carne», è il fondamento teologico e anche comunicativo del suo agire artistico. «In fondo noi siamo tutti fatti di sacro e profano. Non capita di guardare il cielo e di avere i piedi nel fango? La musica forse riesce a esprimere bene questa realtà della vita. Abbiamo oltretutto un grande esempio, Gesù Cristo, il più grande comunicatore della storia. Capiva la gente. I suoi amici erano pescatori, prostitute, persone semplici e povere. E lo capivano quando parlava». Scontato ricordare che questo «presepe» è lo sfondo di grandi canzoni della prima stagione di Dalla quali 4 marzo 1943 (Gesù Bambino) e Piazza Grande, ma anche di molte successive, fino a essere l’ambiente naturale della sua fantasia.

Nonostante Lucio Dalla sia stato uno dei personaggi più estrosi e uno dei “mostri sacri” della canzone d’autore italiana, la produzione letteraria sulla sua figura e sulla sua arte è così ridotta da farlo apparire quasi un sottovalutato “outsider”. A due anni dalla morte (Montreux, 1 Marzo 2012), il saggio di Paolo Jachia “Lucio Dalla, giullare di Dio” (Àncora Editrice, 2013) ci dà la possibilità di ripercorrere il suo profilo artistico, grazie ad un’attenta analisi dei testi delle sue canzoni e la ricostruzione dei rapporti con artisti e intellettuali – come Roberto Roversi e Francesco De Gregori – cruciali per la sua formazione e la sua carriera. Un viaggio dentro le parole e le idee di un artista estremamente creativo, spesso paradossale; un “giullare di Dio” come l’amatissimo Francesco d’Assisi, che ha saputo “contenere” molte anime e raccontare le stagioni e i personaggi della nostra e della sua storia.

«A conclusione di questo viaggio, e ai lettori che lo stanno per iniziare, mi permetto ancora una parola. Dalla non è stato solo un grande artista e un grande interprete, libero, del nostro tempo. Dalla, la sua arte, è come un buon farmaco e fa molto bene. È consigliato a tutte le età. Per le incertezze torride adolescenziali e per le malinconie fredde della maturità e della vecchiaia. Perché Dalla è uno sciamano e un fool senza tempo, un «giullare di Dio» capace di raccontare non solo il nostro tempo storico ma ancora di più il nostro tempo interiore, lo scorrere delle nostre stagioni esistenziali. E lo farà ancora a lungo» (da“Lucio Dalla, giullare di Dio”, di Paolo Jachia).

 

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Paolo Jachia (Milano, 1958), insegna a contratto Semiotica, Semiotica delle arti e filosofia del linguaggio presso l’Università di Pavia, dove è anche stato professore a contratto di Didattica della cultura e civiltà letteraria italiana. Ha tenuto laboratori e corsi sulla canzone d’arte italiana (Collegio Nuovo dell’Università di Pavia e DAMS di Genova – Imperia) e sull’industria culturale (Università degli Studi di Milano – Bicocca). Ha insegnato anche Sociologia dei processi culturali (Università di Bergamo) e Semiotica della narrazione audiovisiva (Università di Torino). È autore di una ventina di volumi rivolti all’analisi critica dell’arte contemporanea. Prima pubblicazione nel 1991 (con Franco Fortini): “Non solo oggi”; ultima nel 2011: “Dal segno al testo. Breve manuale di semiotica della letteratura e delle arti contemporanee”. Ha pubblicato con Àncora, nella collana “maestri di frontiera”, saggi dedicati a Battiato, De Gregori e i Baustelle.

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