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Relazioni e memoria sociale? Non dipendono da un’unica area cerebrale

La preghiera, un’alleata del cervello a difesa della nostra salute

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Emanuele D'Onofrio - Aleteia - pubblicato il 27/02/14

Due medici italiani commentano così una ricerca statunitense, che ipotizza l’esistenza di una piccola area del nostro cervello essenziale per i rapporti sociali

Lo studio è stato pubblicato su Nature, ed illustra i risultati di alcuni esperimenti che sono stati condotti presso il Columbia University Medical Center da un gruppo diretto dal prof. Steven Siegelbaum. Osservando il comportamento di alcuni topi nei quali era stata danneggiata un’area dell’ippocampo, chiamata CA2, già ritenuta fondamentale per quanto riguarda la nostra capacità di ricordare, si è osservata una compromissione nell’abilità di riconoscere individui della stessa specie. L’ipotesi, già supportata da studi precedenti sull’uomo che mettevano in relazione le lesioni dell’ippocampo con alterazioni psichiche come la schizofrenia e l’autismo, potrebbe dare un nuovo e più specifico impulso alla ricerca di terapie per questi disturbi del comportamento.

Eppure, l’ottimismo che quei risultati incoraggiano va ricollocato, e ridimensionato, all’interno di confini più chiari precisi. Lo spiegano ad Aleteia il prof. Alfredo Berardelli, docente di Neurologia presso l’Università La Sapienza di Roma, e il dott. Enzo Soresi, tisiologo, anatomopatologo, oncologo, già primario di pneumologia al Niguarda di Milano, che ha appena pubblicato la quinta edizione del suo Il cervello anarchico (De Agostini).

Prof. Berardelli, quale novità riscontra in questo studio appena pubblicato?

Berardelli: È noto da tempo che l’ippocampo è una struttura estremamente importante per la memoria, su questo non ci sono dubbi. È a livello dell’ippocampo che avvengono tutta una serie di processi elettrici e molecolari che sono alla base della memoria in senso generale. Questo studio fondamentalmente mi sembra che abbia dimostrato che ledendo una parte particolare dell’ippocampo in questi ratti si perde un po’ quello che gli autori chiamano “memoria sociale”, cioè si sviluppa una certa noncuranza verso gli altri simili, e quindi poco interesse per gli altri ratti, e così via. È abbastanza interessante direi come lavoro, perché dimostra una specificità di un tipo di memoria e di comportamento. Che questo poi avvenga nell’uomo è ovviamente tutto da dimostrare. Però i lavori sperimentali sugli animali servono ad aprire ipotesi di lavoro; al momento non ci sono decisamente prove a questo riguardo. Si vedrà nel corso dei successivi studi. È ovvio che non è solo l’ippocampo che ha a che vedere con i comportamenti sociali, e con la memoria sociale, perché ci sono altre strutture, tra cui strutture cerebrali corticali localizzate nei lobi centrali, nelle aree prefrontali e nei gangheri della base che svolgono questi ruoli. Quindi assegnare solamente all’ippocampo questo compito mi sembra un po’ difficile; però non c’è dubbio che l’ippocampo potrebbe svolgere un ruolo nell’ambito di un circuito più complesso.

Quali strade può aprire questa ricerca per la cura di disturbi quali il bipolarismo e la schizofrenia?

Berardelli: Certamente ci sono alcune malattie considerate più prettamente psichiatriche che potrebbero beneficiare di più di queste conoscenze sulle funzioni dell’ippocampo. Tuttavia, nulla esclude che saperne di più su questa funzione potrebbe aprire risvolti su malattie anche neurologiche: molto spesso i sintomi psichiatrici e quelli neurologici sono associati. Direi che al momento non rimane solo un dato molto interessante, pubblicato su un’ottima rivista scientifica; tuttavia l’applicazione e l’estensione di questo dato all’uomo ancora ha necessità di dati sperimentali che per ora mancano totalmente.

A che punto è la ricerca neurologica in Italia?

Berardelli: Guardi, sicuramente in Italia studi sul comportamento umano vengono svolti a un ottimo livello, specie nell’applicazione di malattie neurologiche e di tipo psichiatrico. Quindi certamente questo studio che arriva dagli Stati Uniti potrà essere ripreso anche nei laboratori italiani. Non c’è dubbio che l’Italia sia all’avanguardia in tema di malattie neuropsichiatriche e nell’ambito delle neuroscienze in generale.

Dott. Soresi, quali osservazioni le suscita questo studio sull’ippocampo?

Soresi: Guardi, questa identificazione continua di aree responsabili di determinati comportamenti quali i neuroni a specchio, relazioni empatiche, aree social, non sono così definibili su un piano operativo, in quanto le connessioni cerebrali sono complesse. Il network è complesso: in questo caso ad esempio tutte le strutture dell’ippocampo si parlano con la amigdala, che è la struttura delle emozioni, si parlano coi lobi frontali, che sono i lobi cosiddetti razionali, e quindi tutto questo mondo di comunicazione non è poi così selettivo nel comportamento. Ci può essere un’area che determina il comportamento, e poi quest’area si interfaccia con tutta una serie di fattori cerebrali che la modulano. Non è semplice pensare a terapie che agiscono in quel senso. Però è sempre più interessante questo continuo scoprire delle novità interpretative sul comportamento cerebrale.

Quindi è semplicistico parlare di “area social”?

Soresi: Sì, è sempre semplicistico. Il cervello non è mai distinguibile in aree operative. Le dico, ho letto un magnifico libro di Goldberg, dove si dice che certi comportamenti, talvolta anche di tipo depressivo, possono essere legati ad alterazioni delle strutture basali del cervello, quando poi l’espressione del danno è nei lobi frontali. Quindi tutte queste risonanze comportamentali possono essere sostenute da aree cerebrali che non sono quelle identificate come responsabili del danno. Proprio perché il cervello è un network, sempre più complesso nella sua operatività. Certo la notizia è molto interessante, ma sarei molto cauto sulle potenzialità terapeutiche di una cosa del genere.

Quindi non esiste un luogo unico della memoria sociale?

Soresi: Capisco che sia un’idea affascinante. L’altra grande novità è il microbioma, l’altra telenovela scoperta da qualche tempo, per cui quando noi nasciamo siamo sterili, nell’arco di quattro anni costruiamo nell’intestino un patrimonio di batteri, funghi, parassiti, equivalenti a due chili spalmati nell’intestino. E stanno studiando questo microbioma alla luce addirittura di comportamenti psichici, perché è un’informazione genetica che modula il sistema immunitario e che si interfaccia anche con le strutture psichiche. D’altra parte siamo su un percorso evolutivo che data qualche miliardo di anni, per cui ricostruire la nostra storia non è semplice; anche perché partiamo dall’Homo Sapiens. Non è semplice, ma è interessante, è la parte bella e nuova della medicina. La memoria sociale è un insieme di network che poi fanno focus sulla memoria sociale, benissimo. Ma non è detto che un comportamento alterato sia solo legato a un danno di quel centro.

Ma una ricerca sui topi è immediatamente traducibile sugli uomini?

Soresi: No, assolutamente. È molto affine la ricerca, per cui il topo è un bel modello di lavoro, ma ovviamente dal topo all’uomo passano secoli di evoluzione. Poi il topo ha questa dominanza dell’olfatto, che può creare risposte completamente diverse.

Come dobbiamo leggere questa ricerca?

Soresi: Come un dato nuovo interessante, che dà tanti piccoli tasselli costruttivi dell’assetto cerebrale. Ma da qui a pensare ad una possibile alterazione di un comportamento in funzione dell’alterazione di un centro è un’ipotesi avveniristica, non così concreta. La strada per la cura di quelle malattie è ancora lunghissima. Ogni volta aggiungiamo tante piccole caselle, ma oggi nella lettura del cervello io penso che siamo intorno al 10% della conoscenza delle sue potenzialità.

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