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Un bimbo malato di cancro su Facebook: ho solo 11 desideri

Un bimbo malato di cancro su Facebook: ho solo 11 desideri

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Emanuele D'Onofrio - Aleteia - pubblicato il 24/02/14

L’undicenne inglese Reece Puddington lotta dal 2008 contro un male incurabile e chiede lo stop a cure inutili

L’appello è ancora lì, reso pubblico per tutti coloro che navigando su Facebook avessero voglia di leggerlo e di condividere le proprie emozioni con il piccolo Reece. Le hanno tentate tutte, lui insieme alla sua famiglia, dal giorno in cui sei anni fa ha scoperto di essere stato colpito da un neuroblastoma. Aveva 5 anni all’epoca, e tutti questi anni di cure non sono serviti a migliorare il suo stato di salute. La famiglia l’ha accompagnato in ogni passo di questo percorso doloroso: parlando della mamma, il piccolo scrive, con una lucida e sconvolgente maturità, che “dopo accurate valutazioni ha pensato che se dovesse decidere per se stessa, mi sottoporrebbe ad altre terapie. Ma se dovesse decidere per me, mi lascerebbe andare”.

Ecco che Reece, spossato dalle illusioni spezzate, in lui e nei suoi cari, oggi chiede, da bimbo, di venire accontentato in 11 richieste: tra queste un viaggio con la mamma sulle scogliere, visitare Sun City in Africa, la nuovo Xbox One. Ma non sono tutte cose per se: Reece vorrebbe anche che la sua mamma imparasse a guidare. Abbiamo chiesto a Paola di Blasio, docente di Psicologia dello Sviluppo presso l’Università Cattolica di Milano di commentare questa storia per noi di Aleteia.

La vicenda del piccolo Reece cosa ci dice del rapporto tra bambini e la morte?

Di Blasio: Su questo tema che è molto delicato in realtà sappiamo poco perché non ci sono ricerche, ad esempio sul fatto che i bambini possano chiedere di morire. Quello che sappiamo è che comunque questo bambino di 11 anni certamente ha oramai acquisito un’idea realistica della morte. Infatti, i bambini più piccoli non hanno il concetto, non hanno la percezione di cosa significhi morire, e possono usare la parola che però coincide con l’idea di scomparsa, di scomparsa temporanea, i bambini tra i 7 e gli 8 hanno un’idea sicuramente più realistica, mentre i bambini tra gli 8 e gli 11 anni vedono la morte proprio come una conclusione, come una fine fisica oltreché psichica. Quindi, in realtà, riescono a capire che cosa significa la scomparsa definitiva di una persona. Qui è evidente che si assomma a questo problema l’estrema sofferenza di questo bambino in tutti questi anni, dovuta sia alle cure, sia alla sua condizione. Quindi se noi valutiamo la sua capacità di ragionare o di decidere, sembra che a questa età possiamo valutarla pensando che sia sufficientemente consapevole di quello che dice. Poi il come agire e il cosa fare è un problema che non riguarda la valutazione psicologica in senso stretto.

Questo bambino è inglese. E’ possibile che un bambino cresciuto in una cultura diversa avrebbe avuto una reazione diversa di fronte alla sofferenza?

Di Blasio: Beh sì, credo che in questo lei abbia perfettamente ragione. Credo che il bambino si sia sentito autorizzato a fare questa richiesta, perché probabilmente la sua cultura lo autorizza a poter chiedere una cosa del genere. In un’altra cultura probabilmente questo bambino si sarebbe sentito, in qualche modo, di dover accettare questa sofferenza fino alla fine. Quindi certamente anche la cultura è importante. Ora non so bene di preciso quali siano gli schemi e i riferimenti culturali con cui questo bambino è vissuto. Però certamente quello che uno chiede, le aspettative e i desideri, sono anche molto legati a quello che il bambino ha sperimentato. Dice “la mamma non vuole lasciarmi andare”, quindi sa bene che la sua decisione darebbe un forte dolore alla mamma. Però il bambino capisce, o si sente in qualche modo autorizzato ad avanzare una richiesta di questo tipo che è culturalmente accettata e consentita.

Si può sostenere che all’età di Reece non si è ancora sviluppata la paura della morte?

Di Blasio: Io credo che in un caso come questo, così come nel caso di adulti, in realtà è proprio l’esperienza dell’anticipazione della paura del dolore che è più forte della paura della morte. Cioè, per questo bambino la paura di dover continuare a soffrire è più forte della paura di scomparire. Quindi lì entrano in conflitto due diversi tipi di paura: una che lui ha sperimentato, continuamente, da quando aveva 5 anni; vale a dire, la disillusione continua della speranza, delle cure inefficaci, la sofferenza fisica, il desiderio di poter fare quelle 11 cose. E dall’altro lato qualcosa che lui in realtà non riesce fino in fondo a valutare ma che gli sembra a quel punto preferibile, comunque. E’ anche molto importante secondo me la sofferenza che lui vede sulla faccia delle persone che ama, della mamma, di eventuali fratelli, perché il fallimento delle cure, la sensazione di precipitare in un baratro di dolore è anche riflessa nei volti delle persone che ha intorno. Nessuno più può dargli speranza, né lui riesce a trovarla in sé dopo tutti questi anni.

Perché il bambino sceglie di comunicare la sua decisione tramite Facebook?

Di Blasio: Io ho l’impressione che lui abbia una certa familiarità, data la sua malattia, con la comunicazione attraverso questo canale, perché probabilmente avrà avuto scarse occasioni, date le sue condizioni, di una vita sociale intensa. E trovo anche che potrebbe essere un modo per dire quello che pensa alle persone care. Forse attraverso questo canale ha potuto anche parlare, ed elaborare, attraverso la parola, scrivendo. Credo però che una cosa di questo tipo sia molto difficile dirla alle persone che soffrono vedendoti malato, e dunque lui forse usa questa strategia per dire quello che vuole.

Cosa ci può insegnare questa storia?

Di Blasio: Direi che è un esempio di come a volte le cose indicibili vengono dette ad un largo pubblico più che confidarle ad una persona. Paradossalmente è più semplice dirle in televisione e su Facebook piuttosto che confrontarsi con il dolore di una persona – di una mamma o di un padre – di fronte a una sofferenza di questo tipo.

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