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Sei troppo mammone? Il tuo matrimonio può essere dichiarato nullo

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Emanuele D'Onofrio - Aleteia - pubblicato il 21/02/14
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La dipendenza patologica dal genitore è segno di mancanza della libertà, condizione necessaria della validità di ogni matrimonio
Per un figlio mammone, la moglie è solo un sostituto della madre. Intendiamoci, la cosa vale anche nel caso di una figlia, anche se in Italia è il primo esempio quello più frequente. E quel legame patologico può essere, a termine di Diritto Canonico, giusta causa per dichiarare nullo un matrimonio. La sottolineatura arriva da monsignor Paolo Rigon, vicario giudiziale del Tribunale ecclesiastico ligure, che ne ha parlato durante l’inaugurazione dell’Anno giudiziario. Anche il cardinale Angelo Bagnasco, moderatore del Tribunale in qualità di arcivescovo di Genova e presidente della Cei, ha approfondito il concetto, sviluppando il concetto di dipendenza e, soprattutto, mostrando che la Chiesa è tutt’altro che favorevole a un genere di legame tra genitore e figlio che, se non maturato con lo sviluppo dell’individuo, diventa dannoso. Soprattutto lo diventa per la coppia che quel figlio va a formare. Ne ha parlato ad Aleteia, Hector Franceschi ordinario di Diritto Matrimoniale Canonico presso la Pontificia Università della Santa Croce, di cui è anche Vice Rettore, e giudice del Tribunale di Prima Istanza del Vicariato di Roma.

Come giudica l’enunciazione che arriva dal Tribunale ecclesiastico ligure?

Franceschi: Dobbiamo innanzitutto chiederci se quest’affermazione introduca una novità, nel sostenere che il mammismo può rendere nullo un matrimonio. Io direi di no. Come giudice, infatti, in più di un’occasione ho avuto a che fare con cause di nullità nelle quali, pur senza parlare esplicitamente di “mammismo”, era in questione l’incapacità psichica: in quei casi, tramite anche la perizia di uno psichiatra o di uno psicologo, emergeva spesso non che c’era semplicemente una dipendenza troppo forte dalla madre, ma che quel mammismo patologico costituiva un vero e proprio disturbo di personalità. Spesso queste sono situazioni che gli psichiatri attribuiscono ad un periodo che risale alla prima adolescenza. In molti di questi casi quella dipendenza è quella che fa nascere un cosiddetto disturbo dipendente di personalità, e quindi una dipendenza psicologica dal padre o dalla madre. Nelle cause che io ho avuto tra le mani, almeno qui in Italia, è più frequente la dipendenza patologica del figlio verso sua madre. Forse la causa è una madre troppo possessiva che crea una personalità molto insicura, un ragazzo sempre in ricerca dell’approvazione della madre e che non riesce a prendere una decisione liberamente. Questa è una situazione che si vede già al momento del matrimonio, ci sono segni visibili di quella dipendenza patologica. Spesso poi esplode chiaramente quando comincia quella gara tra la povera sposa e la madre di lui. In quei casi alle volte quello che ho riscontrato era un’ingerenza indebita che porta al fallimento dell’unione, perché la stessa madre o il figlio che non vuole staccare il cordone ombelicale che lo lega a lei, non hanno saputo gestire quel problema. Altre volte invece si tratta di una vera e propria patologia, che rende la persona incapace di assumere la condizione coniugale nei suoi elementi essenziali, e che cerca nella moglie un sostituto della madre. Nella gara tra figlia e madre, del resto, quasi sempre vince la madre che ha l’esperienza dalla sua.

Com’è strutturato una processo di nullità del matrimonio?

Franceschi: Di solito, non sempre, quando si vede una possibile causa di nullità, il coniuge che vorrebbe sapere se il suo matrimonio era nullo si rivolge al tribunale regionale. In Italia per le cause matrimoniali, anziché averne uno in ogni diocesi, è stato costituito un tribunale in ogni regione. Questo è quello che si definisce “il livello di domanda”, nel quale la persona espone brevemente i fatti e i motivi per i quali chiede che venga dichiarata la nullità del matrimonio. Non potrà mai chiederlo “per mammismo”, chiaramente, perché questo termine non indica una causa di nullità; questa può essere solo giuridica, e allora potrebbe essere “per incapacità di assumere gli obblighi essenziali di matrimonio”, per una “causa psichica”, ad esempio. Allora il tribunale studia, sente le parti, i testimoni. In questa fase chiede anche la perizia di un esperto che faccia diverse visite al presunto incapace, con dei test diagnostici, e poi dà un suo parere tecnico sull’esistenza di una patologia psichica, se è precedente al matrimonio, in quale modo ha intaccato la libertà della persona, ecc. I giudici che in Italia sono sempre tre, formano un collegio che decide se consta la nullità o non consta. Di seguito si deve andare necessariamente alla seconda istanza, cioè ad un tribunale superiore, che dovrà confermare o no la sentenza di prima istanza. Perché la sentenza sia “esecutiva”, perché il matrimonio sia effettivamente nullo e i coniugi si possano risposare, ci vuole la seconda istanza che confermi la prima. Solo quando non la conferma si va alla terza istanza, che è la Rota Romana.

Tra i compiti del tribunale c’è anche quello di attivarsi per cercare soluzioni che scongiurino l’annullamento del matrimonio?

Franceschi: Sì, certo. Lo steso codice di Diritto Canonico stabilisce che prima di iniziare la causa il giudice deve valutare se sia possibile la riconciliazione o la convalidazione o sanazione (rimedi giuridici) di un matrimonio nullo. Io penso che sia sempre un bene, per la Chiesa e per le persone, fare tutto il possibile per salvare un matrimonio. Alle volte si vede che c’è un problema di comunicazione grave tra loro due, per l’ingerenza della madre, ecc. Allora è importante avere un buon consultorio familiare, indirizzare la coppia ad uno psicologo o a un consulente familiare perché possa essere aiutata a superare quello che rende difficile il dialogo coniugale. Questo è sempre un bene, il Tribunale dovrebbe farlo sempre. È vero che a volte non si fa, dipende però molto dai Paesi.

Questa norma mostra come la Chiesa spinga perché le persone costruiscano dei rapporti sani con la propria famiglia d’origine, non è così?

Franceschi: Infatti. Per quanto riguarda la libertà dei contraenti un dato che mi sembra molto interessante e che non è noto è che sin dai primi secoli la Chiesa è stata la prima a difendere la libertà dei contraenti. Ad esempio, con il condannare perfino con pene gravi le influenze esterne che privano di questa libertà, come quei genitori che obbligano i figli a sposare una determinata persona. Questo capitava regolarmente fino a pochi secoli fa, ma ci sono culture nelle quali sono ancora i genitori a decidere chi debba sposare il proprio figlio o la propria figlia. La Chiesa ha sempre difeso la libertà del consenso, che è insostituibile. Il diritto della Chiesa dice che il consenso non può essere supplito da nessuna potestà umana: né dalla Chiesa, né dai genitori, né dal gruppo culturale. È la scelta più personale che c’è, io direi una scelta vocazionale vera e propria, quella di donare se stessi per creare quella nuova comunità che è il matrimonio. Per questo ci vuole quella libertà minima. Se non si verifica questa libertà minima, allora per la Chiesa non c’è mai stato matrimonio.

Quand è che non esiste questa condizione della libertà minima?

Franceschi: Posso fare due esempi. Il primo è quello del timore grave, di qualcuno che è obbligato contro la sua volontà a dare il consenso, sotto minaccia; il secondo caso è quello dell’incapacità. Una persona che per un’anomalia psichica non ha la sufficiente libertà, non può essere se stessa mentre prende la decisione, ma è trascinata da un condizionamento patologico, o da una dipendenza patologica; se viene accertato dalla psicologo, allora questo fa dire alla Chiesa che non c’è stato matrimonio. E poi la Chiesa incoraggia molto, e lo dice chiaramente tanto nel Magistero quanto nello stesso Codice del Diritto Canonico, l’obbligo grave dei genitori nell’educazione non soltanto religiosa, ma morale ed umana dei figli. Promuove e tenta di trovare delle soluzioni ai problemi pratici, quelli che si leggono sui giornali, i ragazzi che sono senza lavoro, che non si possono rendere indipendenti, ecc. Questo è diverso dal mammismo. Creare delle condizioni sociali giuste: educare adeguatamente, nel senso che oggi – questo lo vedo anche dal lavoro pastorale che svolgo – i giovani vogliono avere tutto sotto controllo prima di sposarsi. E poi pongono l’accento sulla festa, il viaggio, e si è perso che il centro di tutto è l’impegno, il donare se stessi, mentre tutto il resto è la cornice.

Quali sono le cause più frequenti per iniziare una causa di nullità del matrimonio in Italia?

Franceschi: Per una dichiarazione di nullità – perché ricordiamo sempre che non si tratta di annullare qualcosa che era valido, ma di dichiarare che quel matrimonio non è mai stato un matrimonio, cioè non era valido fin dall’inizio – le cause più frequenti penso siano da una parte quella che si chiama l’esclusione o la simulazione, cioè una persona che si sposa con la volontà positiva ad esempio di non avere figli. Allora il problema è nel fatto che questa persona sta escludendo qualcosa che è nell’essenza del matrimonio: ad esempio, l’esclusione della fedeltà. La “simulazione” è una delle cause di nullità più frequenti, anche per la mancanza di formazione che troviamo oggi in molti giovani, che arrivano al matrimonio per una formazione che delle volte è persino ostile al matrimonio, alla famiglia, alla fedeltà, ecc. Si sposano con una volontà chiaramente chiusa per qualcosa che è l’essenza del matrimonio. E l’altra causa che io vedo nei tribunali è proprio la cosiddetta incapacità psichica: ci sono sempre più cause su questo. Un tema su cui i pontefici – Giovanni Paolo II, Benedetto XVI – sono tornati molte volte nei famosi discorsi alla Rota Romana, tentando di arginare alcune interpretazioni un po’ troppo larghe, perché a volte è bastato accennare alla presenza di un problema psicologico per definire qualcuno “incapace”. Non può essere così. L’incapacità psichica toglie la discrezione minima, o rende incapace di assumere qualcosa che è l’essenza del matrimonio. Nessuno può dare quello che non ha: se una persona non può disporre di se stesso, allora non può darsi ad un’unione.