Sulle buone pratiche e le esperienze positive per far sì che la specificità di una vocazione non diventi fatica nelle relazionidi Luca Rolandi
La comunità c’è per un servizio, non ha senso in se stessa, è mandata ad una realtà più ampia, è capace di mostrare disponibilità per tutti, i quali possono dare un’adesione anche solo parziale. In una lettera del 2010 ai suoi confratelli sacerdoti mons. Bruno Forte scriveva: «La prima sfida che mi viene in mente è la solitudine del prete: in verità, essa è messa in conto sin dal primo momento della nostra chiamata ed ha un sapore anzitutto bello e positivo. Solitudine per noi che abbiamo incontrato Gesù non è tanto assenza degli uomini, quanto presenza di Dio: un essere rapiti dalla luce del Suo Volto, pur sempre cercato, un desiderio di stare con Lui e di lasciarci lavorare da Lui».
Solitudine spirituale feconda che però può diventare anche pesantezza insostenibile se non c’è una comunità di confratelli, di fratelli laici che vivono e costruiscono le tante piccole chiese in ogni angolo del mondo. Oggi i preti sono soli, non tutti certamente, ma, è una osservazione che faccio da laico che vive e lavora con loro. I preti credo abbiamo oggi bisogno di relazioni vere, di confronto, dialogo e di sostegno sincero, trasparente, fraterno. Tali e tante le funzioni che sono chiamati a svolgere che è insito nell’agire perdere il senso più profondo del ministero.
Ci sono buone pratiche ed esperienze positive, non tutto è negativo e frustrante. La buona intesa fra sacerdoti e laici permette di creare un clima collaborativo dove gli stessi laici comprendono le difficoltà, anche di natura logistica, dei loro presbiteri. Di certo contribuisce, in queste realtà, anche il cammino nella formazione: pochi passi graduali che aiutano le persone a prendere consapevolezza del cammino diocesano verso le unità pastorali, il rapporto tra le diocesi molto estese, l’apertura di chiese e conventi a nuove abitazioni per famiglie che vivono il loro impegno di sostegno volontario alla vita delle parrocchie.
Quale prete per una parrocchia che cambia? Una risposta è contenuta in un bel documento della Commissione presbiterale regionale lombarda 2003-2005 in cui è scritto: «La riconduzione del ministero all’essenzialenon estrania il presbitero dalla storia del suo tempo, ma se mai lo immette con maggiore significatività dentro la vicenda odierna, come "lievito evangelico". In un mondo che cambia continuamente, gli è chiesto di "stare" in questa vicenda e di appassionarci ad essa perché è questo e non altro il momento di grazia nel quale è chiamato ad essere discepolo e testimone».
Corresponsabilità, collaborazione, partecipazione descrivono un modo di essere dentro una piccola comunità, di sentirne la preoccupazione per la sua vita. Comunità si coniuga con l’idea di popolo di Dio, adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito e che «come un piccolo gregge, costituisce tuttavia per tutta l’umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui assunto ad essere strumento della redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (cfr. Mt 5,13-16), è inviato a tutto il mondo». La Lumen Gentium in particolare ce lo insegna.