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I cattolici si interroghino sul “fine pena mai”

Persona in carcere

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Aleteia - pubblicato il 18/02/14

Può una punizione essere definitiva e senza appello in uno stato democratico? Dov'è la correzione se non c'è in gioco la libertà?

E' bene riaprire il dibattito sull'ergastolo, un tema che molto spesso si lascia in ombra perché, non sia mai, un delinquente dovesse uscire di galera. Che senso ha il carcere se non ha funzione pedagogica e di rieducazione? Se non permette a chi ha sbagliato, anche tanto, di ricostruirsi una dignità e con essa una vita, magari fuori dal carcere?

E' questa in buona sintesi il dossier che Famiglia Cristiana ha elaborato e pubblicato oggi, chiedendo in pratica al laicato cattolico di imitare quello che ha fatto il Papa: abolire l'ergastolo.

A chiederlo, ricorda il settimanale dei Paolini, sono i tanti che con i detenuti lavorano e si battono per i loro diritti: “Hanno ragione i detenuti. Che senso ha dire che le carceri sono uno spazio dove si recupera la persona se è scritta la data di entrata e la data di uscita mai? E’ una contraddizione in termini. Perché non devono avere il diritto di dar prova che sono cambiati?”. “A causa di queste norme ci sono nelle nostre carceri ragazzi quarantenni che sono stati condannati all’ergastolo a soli 18 anni e che non sono mai usciti, neanche per il funerale del padre. Ragazzi che hanno vissuto più tempo della loro vita tra le mura di una prigione che fuori. Persone che non hanno la cella del carcere come letto dove rientrare per dormire, ma ce l’hanno come tomba”, afferma Giovanni Ramonda, responsabile della Comunità Papa Giovanni XXIII, l'associazione che fondata da Don Oreste Benzi.

Così come anche statisti cattolici di primo piano con Aldo Moro che nel 1976 in una lezione universitaria diceva ai suoi studenti in aula: “Ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati: è la risposta calibrata dell’ordinamento giuridico e, quindi, ha tutta la misura propria degli interventi del potere sociale, che non possono abbandonarsi ad istinti di reazione e di vendetta, ma devono essere pacatamente commisurati alla necessità, rigorosamente alla necessità, di dare al reato una risposta quale si esprime in una pena giusta”. Il professore della DC, definiva l’ergastolo come “agghiacciante, psicologicamente crudele e disumano”.

E c'è chi – come Stefano Anastasia, difensore civico dell’associazione “Antigone” – che si batte per i diritti nelle carceri, non ha proprio dubbi: “L’ergastolo è una pena detentiva non paragonabile ad altre pene, perché condanna a morire in carcere. E’ cioè una pena capitale a tutti gli effetti o, come la chiamava Cesare Beccaria, ‘una pena di morte lenta’. Ma di più: è una doppia pena di morte, perché prima di quella fisica c’è quella civile”.

Ed è bene leggere la lettera di Agnese Moro che spiega la sua posizione, mutuata dagli insegnamenti morali del padre: “Bisognerebbe avere anche l’onestà e il coraggio di affrontare il tema della giustizia. È facile dire a chi ha perso qualcuno perché un altro essere umano gli ha tolto la vita: “Ti faremo giustizia; manderemo il responsabile in prigione per molti anni o per sempre, e tu sarai ripagato”. È una menzogna.Le perdite subite non si risanano, e nessuna punizione può ripagare di un affetto che non c’è più. Può invece aiutare – tanto – vedere che chi ha fatto del male ha capito quello che ha combinato, ne è realmente dispiaciuto, vorrebbe con tutte le sue forze non averlo fatto; che riprende a vivere in maniera diversa, cerca di essere utile alla società, porta il rimorso suo e anche il dolore delle proprie vittime. È quanto di più vicino alla giustizia si possa chiedere. Ed è la saggia via proposta dalla nostra Costituzione”.

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