Sergio Tapia, vice-rettore nel Collegio Sedes Sapientiae per molti anni, spiega come fiducia e trasparenza siano le fondamenta di un rapporto sano tra formatore e seminarista
Essere innamorati di Cristo. Questo significa, nella vita quotidiana di un sacerdote, essere in grado di amare tutte le persone e non una soltanto, al di là di quale sia il suo sesso. Questa è la condizione che rende pronto un seminarista a mettere in pratica la sua vocazione. L’Istruzione della Congregazione per l’Educazione Cattolica circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali, redatta nel 2005, chiarisce a beneficio dei formatori quale sia l’atteggiamento da assumere nei confronti dei loro seminaristi affinché possano sviluppare una propria maturità affettiva. Il rev. Sergio Tapia, oggi docente di Public Speaking e Media Training presso l’Università Pontificia della Santa Croce, è stato vice-rettore dal 1999 al 2008 presso il Collegio Ecclesiastico Internazionale Sedes Sapientiae, collegato alla stessa università. A noi di Aleteia ha raccontato quali siano i compiti e le difficoltà a cui si trova di fronte un formatore che vuole costruire un rapporto di fiducia con i propri seminaristi.
Prof. Tapia, chi sono i seminaristi del Collegio Ecclesiastico Internazionale Sedes Sapientiae?
Tapia: Quando un vescovo vuole che un seminarista faccia gli studi del primo ciclo, quelli relativi al Baccellierato in Teologia a Roma – gli si offre la possibilità di farlo in questo Collegio, mentre studia alla Santa Croce. È un bel seminario che ospita circa 80 ragazzi da più di 30 paesi. Nel 2005, quando arrivò questa Istruzione della Congregazione dell’Educazione cattolica circa il discernimento vocazionale per noi non fu una novità, non fu una sorpresa, ma piuttosto una conferma di quali dovrebbero essere le linee guide per la formazione.
Qual era il contenuto di quel documento?
Tapia: In questo documento in definitiva papa Benedetto e la Congregazione dell’Educazione cattolica, che in quel momento era incaricata di seguire la formazione nei seminari, si preoccupavano di trovare linee di formazione umana per aiutare i seminaristi a crescere nella maturità affettiva. Un sacerdote è una persona che è destinata per ruolo non solo a rappresentare sacramentalmente Gesù Cristo e ad amministrare i sacramenti, che resta la cosa più importante; ma nella stessa maniera in cui Gesù rivela l’amore di Dio Padre, il sacerdote rappresentando Gesù deve anche avere in qualche modo un ruolo di paternità spirituale. E certamente per avere questo ruolo occorre una persona con un grado di maturità minimo che gli consenta di agire con persone di qualsiasi condizione, livello sociale e culturale, e anche diciamo così di tendenze affettive diverse, affinché possa consigliare ognuno e possa mostrare ad ognuno il cammino verso il Cielo.
Cosa si intende per maturità affettiva?
Tapia: Nessuno di noi, neanche tra i sacerdoti, è un angelo, tutti abbiamo le nostre difficoltà, per diventare sacerdoti è richiesto questo grado di maturità affettiva diciamo così minima, perché altrimenti se una persona non ha il suo cuore centrato in Cristo, ma è disperso alla ricerca di qualunque tipo di affetto, non potrà compiere questo ruolo di paternità spirituale. Dunque questo discorso non è diretto solo ai candidati con tendenze omosessuali, ma in realtà è più largo il campo, perché l’idea in un seminario è di aiutare tutti a vivere la vita di celibato apostolico. Il problema non è l’omosessualità, ma la cultura gay. Queste sono due cose completamente diverse, perché gli omosessuali ci sono sempre stati nella storia dell’umanità, ed è vero che ci sono state fasi o momenti in cui alcuni di loro sono stati maltrattati. Ma la cultura gay è una cosa diversa, perché ostacola – almeno è così che la vede la Chiesa – un corretto relazionarsi degli uomini con le donne. Invece, per coprire il ruolo di paternità spirituale occorrono persone che siano perfettamente centrate. Questa idea del discernimento e dell’idoneità del candidato era la preoccupazione del papa, anche perché purtroppo, tra i diversi casi di sacerdoti che hanno commesso abusi in quest’ultimo mezzo secolo, la percentuale di coloro che avevano tendenze omosessuali era alta. Se queste fossero state scoperte, e se queste persone fossero state aiutate negli anni di seminario, molte di loro non sarebbero arrivate al sacerdozio; o se ci fossero arrivate, sarebbero state aiutate costantemente, per poter vivere bene la loro chiamata. Il problema è quando una persona occulta la propria tendenza omosessuale, se non sente di trovarsi in un clima di fiducia nella formazione del seminario, in qualche modo sta come gettando sassi contro il proprio tetto, sta già minando la propria missione alla base.
Al seminarista che si sta formando, dunque, è richiesto di rivelare le proprie tendenze sessuali?
Tapia: Il seminario è costituito come una comunità formativa: non sono soltanto i superiori, i sacerdoti e il rettore con la squadra formativa, ad essere responsabili della formazione di tutti i ragazzi, ma in qualche modo lo è tutta la struttura, tutti i ragazzi, persino le persone di servizio, il personale di manutenzione dello stabile. Tutti sono coinvolti in questo lavoro della Chiesa, nell’aiutare a formare i sacerdoti. Allora in un seminario la cosa più importante è favorire la relazione naturale tra i superiori e i seminaristi, senza limitare quella relazione al momento dell’intervista di formazione, al colloquio formativo a tu per tu con il ragazzo. Questo clima di formazione è autentico e si vive tutto il giorno: i superiori per esempio pranzano insieme ai ragazzi, oltre ai momenti di lezione nei quali c’è la formazione classica, momenti di lezione per prepararli alla vita liturgica. Oltre a questi momenti accademici ci sono tanti spazi nei quali uno comincia a rendersi conto di come sono i seminaristi. Il problema sorge quando il seminarista percepisce il suo superiore non come un alleato che lo sta aiutando ad arrivare al sacerdozio, ma lo vede come un nemico, un investigatore, che può “farlo fuori” durante il cammino. Allora se nel rapporto non si instaura un clima di sincerità e di fiducia l’uno nell’altro sarà molto difficile che vengano fuori i problemi, e non parlo solo di quelli legati alla sessualità, ma i problemi in genere.
Quali possono essere altri tipi di problemi?
Tapia: Non so, una persona può essere timida e avere paura di trovarsi davanti ad un’assemblea per fare un’omelia. E se questa persona non riesce a dire “mi capita questo quando sono davanti ad un uditorio”, allora non lo si potrà aiutare, e lo stesso vale per qualunque necessità che uno abbia. È necessario che il seminarista veda il formatore come un aiuto, proprio perché nessuno ha diritto – e questo è molto importante sottolinearlo – al sacerdozio. Il sacerdozio è una chiamata, ed è la Chiesa che chiama coloro che considera più idonei per svolgere questo ruolo. Se il seminarista dice “io sento di avere questa chiamata, e sono disposto ad ascoltare anche la voce della Chiesa”, allora è più facile che ci sia fiducia.
Come è organizzata la formazione in un seminario?
Tapia: Ci sono sempre due figure nei seminari, anche in quelli più piccoli: il rettore, che rappresenta il Vescovo, e poi il direttore spirituale che aiuta il ragazzo a sviluppare una vita di preghiera, di fede quanto più forte possibile, perché non si potrà mai essere sacerdoti senza saper pregare. Ma il fatto che il rettore non sia il direttore spirituale non impedisce al rettore di fare domande su questioni di fondo; non è che della mia intimità parlo solo con il direttore spirituale, questo sarebbe un errore. Il seminarista, che dovrebbe vedere nel rettore e in tutta la sua squadra di formatori la Chiesa che sta cercando di aiutarlo per formarsi umanamente come sacerdote, dovrebbe avere la fiducia di dire: “Se io gli svelo la mia difficoltà, loro mi aiuteranno a viverla”. Però, e forse è questo che il documento del 2005 è venuto a dire, i vescovi e i superiori del seminario hanno la responsabilità di scoprire se all’interno del seminario ci sono o non ci sono candidati idonei per il sacerdozio. E diciamo che questa istruzione non si rivolge ai seminaristi, ma ai superiori, ripetendogli che sta a loro far arrivare al sacerdozio i migliori tra i seminaristi, e se ci sono persone che hanno difficoltà di vivere la maturità affettiva in qualsiasi forma, non soltanto nell’omosessualità, persone che sono immature per la paternità spirituale, loro lo devono sapere. Infatti non si può procedere verso l’ordinazione se una persona ha tendenze – queste sono le parole – “profondamente radicate”. Non è semplicemente un desiderio di un momento, ma qualcosa di costante negli anni.
Quindi si parla di “tendenze radicate” anche nel caso dell’eterosessualità?
Tapia: Sì, esattamente. Bisogna capire se c’è una vocazione con la V oppure con la B. Cioè, quale è il motivo che ha portato una persona ad entrare in seminario. Assicurarsi che non stia entrando solo per risolvere un problema di vita. Poi occorre cercare di capire se quella persona ha come desiderio il servizio, e se si rende conto che per poter servire tutti almeno nella Chiesa latina uno è chiamato a vivere il celibato. Il terzo punto è che il celibato deve essere visto non come un obbligo, ma come una scelta d’amore. Allora aiutare il seminarista a fargli capire che l’unica cosa che può garantire il celibato è il fatto che sia innamorato di Cristo, che in definitiva significa essere innamorato di tutta la Chiesa, di ogni persona. A volte qualcuno pensa che se il sacerdote non si sposa è perché non ha cuore, ma questo è completamente sbagliato. Basta vedere la vita di ogni sacerdote santo: i santi non “si innamoravano” di una sola persona ma di ogni persona che trovavano. Il celibato si spiega – come lo vedo io – come una grazia, una capacità che Dio dà ad una persona di amare tutti, ed invece in queste forme problematiche di dominio della propria maturità affettiva, il cuore si fa piccolo, e cerca soltanto quello che soddisfa il desiderio di ogni istante. Allora il problema non è l’omosessualità, ma è la castità.
Nella sua esperienza i candidati hanno difficoltà a svelare le proprie tendenze omosessuali?
Tapia: Direi che hanno una tendenza ad occultarle, perché loro stessi si rendono conto che se venissero fuori non potrebbero continuare col cammino del sacerdozio. Ma la sfida sta tutta nel creare questo clima di fiducia tra la squadra formativa e il seminarista, perché questi si renda conto che il problema non è essere o meno sacerdote, ma vivere felici in questa vita. E noi cerchiamo di aiutarlo a trovare quale sia il cammino che Dio sta segnando. E in ogni caso, se hai una tendenza problematica come questa, noi vogliamo aiutarti sia che tu diventi sacerdote sia che non lo diventi, questo è secondario. In questo momento la cosa è aiutarti a maturare. Perciò è molto importante che le persone che lavorano in seminario siano molto aperte, al fine di poter trattare con qualunque categoria di persone, e siano molto disponibili ad ascoltare, più che a parlare. Saper far parlare, suscitare curiosità: molte volte durante un pranzo o durante una partita di calcio il fatto che una persona se la prenda per un problema minimo ti fa capire che c’è un problema di maturità umana. Allora gli chiedi: “Ma Gesù si sarebbe comportato così se fosse stato al tuo posto?”. Lo fai ragionare e a poco a poco lo aiuti. Ci vuole tempo, ed è logico che il seminario richieda almeno 6 anni, è questo il minimo previsto dalla legge. In molti casi vengono in aiuto dell’equipe formativa anche i parroci che si prendono cura dei seminaristi durante le vacanze. Questo è un altro aiuto molto importante, perché uno invia il seminarista durante le vacanze a fare la pastorale nella propria o in altre parrocchie, e allora è importante che quel parroco sia nella linea formativa di tutta la diocesi. Questo perché lui metterà il seminarista in contatto con un ambiente completamente diverso, fuori dalla campana di vetro del seminario, e allora sono i parroci che ti fanno capire che lì ci può essere un problema.