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Le ali infrante

Bread, wine and fish

© Anneka/SHUTTERSTOCK

Dimensione Speranza - pubblicato il 13/02/14

Tutte le esperienze religiose si veicolano attraverso un vasto repertorio simbolico perchè l'uomo è un animale simbolico

di Fausto Ferrari


Guardai ed ecco non c’era nessuno
e tutti gli uccelli dell’aria erano volati via.

(Geremia 4, 25)


L’uomo animale simbolico

L’uomo è un animale simbolico. Oltre al linguaggio (ma il linguaggio si presenta già come un raffinatissimo mondo di simboli) è il simbolo a distinguere l’uomo dagli animali. Nessun animale è capace di usare simboli – di associare un significato ad un oggetto, ad uno strumento, ad una cosa. L’uomo, nel corso dei secoli, è stato capace di attribuire un significato ulteriore ad un dente di cinghiale, ad un sasso levigato dallo scorrere dell’acqua o al corno di un bue… Nel processo di simbolizzazione l’uomo non si è limitato ad attribuire significati ad oggetti “naturali”, ma ha iniziato pure ad elaborarli: attraverso un fare e un produrre simboli. Anche l’agire umano – in larga parte – si è trasformato in azione simbolica. Il prendere cibo ben presto risponde non soltanto ad un bisogno fisiologico di sopravvivenza, ma si carica di significati legati all’incontro, all’ospitalità, alla partecipazione, alla condivisione e alla comunione. E così vengono ad assumere altri significati il bere, il riprodursi, il ripararsi dalle intemperie, il prendersi cura della prole, il prendere congedo da quanti muoiono, ecc. Sembra che il culto dei morti sia stato proprio il primo elemento elaborato dall’umanità dal punto di vista simbolico-religioso.

Ogni linguaggio ed ogni scrittura sono simbolici. Nel momento in cui il segno grafico è stato associato ad un suono del linguaggio umano si è verificato un grande passo in avanti sul piano simbolico. E non a caso l’apparizione della scrittura si manifesta proprio intorno ai templi, ai luoghi di culto, ai centri religiosi. Vale a dire, nei pressi di quei luoghi che già si sono rivelati esplicitamente carichi di simbologie.

L’abbigliamento nasce sicuramente come una progressiva estensione di simboli portati sul corpo umano ed in tutte le epoche mantiene, apertamente o velatamente, anche una sua implicanza simbolica. Il vestito non risponde soltanto alla necessità di ricoprirsi, di proteggersi dalle intemperie o di nascondere le pudenda, ma simbolicamente rappresenta molte altre cose: la distinzione di rango, il ruolo ricoperto nella società, l’appartenenza a categorie o gruppi particolari, la separazione, uno stato esistenziale, il lutto, il matrimonio e, in primo luogo, il sesso.

L’evoluzione di una cultura è accompagnata da una formulazione sempre più raffinata del proprio mondo simbolico. Tra tanti esempi, si possono qui ricordare l’impero bizantino, il cosmopolitismo dell’impero Tang in Cina, l’esperienza dell’al-Andalus nella Spagna prima della Riconquista ed il nichilismo assoluto del buddismo zen. È nota la leggenda del principe Vladimir di Kiev che si convertì al cristianesimo di fronte alla solennità della liturgia bizantina. Le grotte di Mogao a Dunhuang, in Cina, hanno conservato innumerevoli, preziose testimonianze di testi sacri, di cappelle votive e di raffigurazioni pittoriche del periodo Tang.  L’Andalusia vide il fiorire di una ricca cultura attraverso il comune contributo delle comunità mussulmane, cristiane ed ebraiche. Lo zen, pur essendo radicale nella sua negazione del reale, ha sviluppato attraverso l’ikebana (l’arte della disposizione dei fiori recisi), il karesansui (il più noto dei giardini zen, ove la disposizione di pietre e ghiaia rappresentano un ricco simbolismo), il cha no yu (la cerimonia del tè), il koan (strumento di una pratica meditativa), ecc. un esteso, ricercato universo simbolico.

Tutte le esperienze religiose si veicolano attraverso un vasto repertorio simbolico: parole, azioni, contenuti. Spesso ritroviamo simboli che sono immediati e comuni a molte religioni, mentre in alcuni casi altri risultano essere propri a singole esperienze. L’universo religioso si concretizza nei riti, attraverso azioni cariche di simbolismo. Se queste azioni, tuttavia, si fossilizzano in una reiterata riproposizione, il rito diventa rituale, finendo col perdere la sua dimensione simbolica e riducendosi a semplice cerimonia.
L’uomo non può fare a meno dei simboli: culturali, sociali, religiosi, ecc. Senza simboli la sua comunicazione s’impoverisce. Ma, al tempo stesso, conosce una profonda regressione sul piano sociale, religioso e culturale. Un popolo si disperde quando non è più capace di simbolizzare il suo mondo, non sa più comunicarlo attraverso la lingua, la scrittura ed i miti fondanti. Una religione va in crisi ed è destinata a scomparire quando sul piano simbolico non è più capace ad elaborare il vissuto dei suoi adepti. Rispetto ai culti greci, romani, celtici, germanici e slavi il cristianesimo è stato capace di elaborare nuovi simboli o di rielaborare gli antichi conferendo loro una nuova valenza ed inserendoli all’interno di una coerente cornice simbolica.

Lungo duemila anni di storia il cristianesimo ha elaborato una lunga teoria di simboli. Alcuni di questi sono relativamente recenti, altri non più usati da tempo. Il pane, il pesce, il vino, la luce, la vite, il buon pastore, la croce, l’alfa e l’omega, il vegliardo, l’agnello, il pellicano, la civetta, l’acqua viva, la via, la vita, l’olio, il balsamo, il basileus (signore), la roccia, la nube, il fuoco, il vento, la colomba, il leone, lo sposo, il delfino… E questi rappresentano soltanto alcuni dei molti simboli che le prime comunità cristiane hanno attribuito al Cristo o allo Spirito Santo. A voler analizzare l’intero universo simbolico cristiano ci troveremmo di fronte a centinaia, anzi, a migliaia di simboli. A citarli tutti, la lista diventerebbe ben lunga. Per comprendere la vastità dell’argomento basterebbe considerare all’interno dell’esperienza cristiana dell’Occidente il periodo medioevale – epoca che con l’arte romanica e l’arte gotica ci pone di fronte allo sviluppo di un ricchissimo mondo simbolico – o, nell’Oriente cristiano, le rappresentazioni iconografiche.

L’impoverimento del nostro mondo simbolico

L’epoca moderna ha preferito incrementare un linguaggio rappresentativo rispetto a quello simbolico. Il barocco tende a consolidare il fulgore della rappresentazione: la machina diventa scenografica, il simbolo lascia il posto al fasto ed al traboccante. Questo bisogno di rappresentazione – tutto estetico, del quale possiamo vederne il compimento nella costruzione della reggia di Versailles – ha la necessità di usare materiali che siano fortemente manipolabili e relativamente economici. Dietro le patine dorate abbondano gli stucchi ed i gessi. Ma lo stucco diventa “stucchevole”. Inizia a crearsi una frattura tra il simbolico (che viene ormai relegato al passato e ad un passato negativo) ed il moderno che deve essere rappresentato ormai nella sua “oggettività”. La Querelle des Anciens et des Modernes esplicita, in realtà, la situazione venutasi a creare nell’epoca moderna: il mondo non ha più una valenza simbolica, ma è soltanto oggetto di studio, di conoscenza. Un mondo governato da leggi che l’uomo man mano viene scoprendo e che non ha più bisogno di essere descritto attraverso gli oscuri paraocchi dell’ignoranza.

Tuttavia, nonostante queste premesse della scienza moderna, l’uomo continua a vivere senza poter fare a meno di simboli. Alcuni li ha conservati, oppure ne ha prodotti di nuovi. La bandiera e l’inno nazionali rappresentano simboli (pur all’interno della profonda crisi che stanno attraversando le nazioni moderne) che per le generazioni passate non volevano dire nulla di tutto ciò che sono venuti ad assumere lungo il processo politico degli ultimi due secoli.

Oggi, in nome del pluralismo, della tolleranza e del rispetto reciproci si fanno sempre più frequenti le voci di quanti vorrebbero espellere da ogni esperienza pubblica tutta una serie di simboli – ed in primo luogo, quelli religiosi. Il problema non è quello della possibilità di usare il velo per le donne musulmane o di conservare i crocifissi nei locali pubblici per i cristiani, ma se sia ancora possibile vivere all’interno di un mondo simbolico.

Certo, i simboli non sono scomparsi. In larga parte sono stati accalappiati dalla società dei consumi. Il mondo della pubblicità conosce un modo sistematico, continuo e raffinatissimo nell’usare il piano simbolico in ogni forma della sua comunicazione. Al pari di qualunque altro prodotto, in nome della libertà (economica di ricavare profitto) i simboli vengono estrapolati, usati e manipolati. Oppure, ne vengono creati di nuovi. In un vortice continuo, potremmo dire quasi tellurico. Perché è proprio di questa nostra società l’usare ed il gettare. Lo scialo è di fronte ai nostri occhi. Nessun simbolo sembra oggi adatto per comunicare qualcosa che si prolunghi oltre alla durata d’una campagna pubblicitaria.

La società dei consumi va di pari passo con la società dell’immagine. L’estetismo non è amante dei simboli. Al massimo li usa quando gli servono per creare nuove immagini, nuove forme rappresentative. Li usa come forme, come rappresentazioni, ma non come simboli. Non a caso una delle raffigurazioni pittoriche più ricorrente all’inizio dell’epoca moderna è quella di Narciso. L’antico personaggio del mito greco non è raffigurato come simbolo, ma ormai è diventato la rappresentazione più paradigmatica della nuova società che sta nascendo. Una società che vede se stessa con occhi nuovi, ma che è ormai incapace a vedere altro – innamorata com’è di se stessa, della propria bellezza. Tuttavia, la considerazione di questa bellezza resta tutta autoreferenziale.
La società della complessità, in realtà, sta agendo attraverso la semplificazione dei simboli. Il processo in corso è quello della reductio ad unum di tutti i mondi simbolici (compresi quelli religiosi ove l’islam viene ormai rappresentato dal solo velo ed il cristianesimo dal solo crocifisso[1]). Come se bastasse un unico simbolo per indicare e rappresentare tutta la realtà! Ma sul mercato globale il successo di un prodotto è dato dall’unicità del simbolo: il medesimo per indicare in tutto il mondo una catena di fast food, una bibita frizzante o il marchio di un paio di jeans.

Non solo. I simboli, oggi, hanno perso gran parte della loro forza e della loro immediatezza simbolica. Il pane, ad esempio, non è più il simbolo per eccellenza del cibo, del nutrimento e della vita. Perché di pane oggi ne consumiamo pochissimo e spesso lo sostituiamo con mille altri prodotti (grissini, cracker, biscotti, ecc.). Inoltre, da un punto di vista alimentare possiamo benissimo vivere senza per questo dover mangiare pane. I simboli vengono sostituiti dalle “marche”. Il logo di un prodotto commerciale ha ormai un impatto maggiore rispetto ad un simbolo religioso.

Il linguaggio s’impoverisce. Nel parlare quotidiano si usano poche centinaia di termini. Si ripetono frasi fatte, luoghi comuni, tormentoni televisivi. In italiano l’uso del congiuntivo sta scomparendo. E con esso va scomparendo la capacità di cogliere la dimensione “soggettiva” della realtà. L’evoluzione dell’epoca moderna, nella sua scientificità positivista, ha finito con l’associare al simbolo l’idea dell’arretratezza e dell’oscurantismo. Il velo diventa così la negazione dell’emancipazione femminile[2]. La croce il segno dell’incompatibilità con la libertà dei non credenti. Si guarda ad alcuni simboli del “lontano” oriente con una sorta di curiosità e di simpatia folcloristica, senza riuscire ad afferrarne la portata nella sua complessità. Le chiese (intese come costruzioni architettoniche) hanno ancora un ruolo all’interno della società moderna soltanto se trasformate in musei (testimonianze d’un passato artistico che si esprimeva con un “oscuro” linguaggio religioso) e le icone vengono commercializzate al pari dei batik o dei mobili in tek. Raffigurazioni che per secoli sono state oggetto di devozione religiosa ora sono relegate nelle pinacoteche, per una fruizione puramente estetica da parte dei turisti.

Se i pellegrini si muovevano in un orizzonte simbolico e religioso, il turista oramai si muove velocemente all’interno di contesti che per lui non assumono più alcun significato simbolico. Si va a vedere il Muro del Pianto al pari della Muraglia Cinese o delle barriere coralline di Sharm el Sheik. Tutto quanto fa spettacolo. L’importante è consumare. Alla fine diventa indifferente se il tour operator ci accompagna a visitare una chiesa, un centro commerciale o i ruderi di una cavea. Tutti i luoghi assumono il medesimo significato: quello di una piatta e indifferenziata insignificanza. Marc Augé parla di nonluoghi[3]. Lo spazio abitato dagli uomini si sta trasformando: i luoghi antropologici vengono sostituiti da molti altri nonluoghi che hanno la caratteristica di essere non identitari, non relazionali, non storici. All’interno di questi ambienti l’uomo esiste in quanto consumatore, viene riconosciuto soltanto come fruitore di servizi. Il suo mondo simbolico viene ridotto alla cartellonistica pubblicitaria, ai messaggi preregistrati, ai cartelli affissi che segnalano divieti. «Si va al Mall of America[4] con la stessa religiosa devozione con cui i Cattolici vanno in Vaticano, i Musulmani alla Mecca, i giocatori di azzardo a Las Vegas, i bambini a Disneyland» (Michael Crosbie, nella rivista Progressive Architecture).
Anche il cristianesimo occidentale si è progressivamente impoverito a livello simbolico. Il Concilio Vaticano II può essere interpretato come il tentativo di recuperare il simbolismo cristiano più autentico, sfrondato dagli orpelli secolari che si erano accumulati. E la riforma liturgica – nonostante tutti i mali che alcuni s’arrogano oggi di gettarle addosso – forse non è stata compresa (ed accolta) proprio nella sua dimensione più profonda ed autentica: quella del simbolo. È per questo che oggi assistiamo al diffondersi di una grave tentazione: il ritorno a sostituire il rinnovato simbolismo dell’universo cristiano con la machina rappresentativa delle cerimonie e delle funzioni – una riduzione operata tutta a livello di religione civile e che ha come controparte la fossilizzazione nel rito.

L’immaginario odierno

Osservando attentamente il comportamento dei giovani si può notare quanto sia presente il bisogno di simboli. Ma le varie tappe tradizionali di iniziazione della vita, presenti in tutte le culture, sono state eliminate dalla nostra società. La società industriale è stata capace d’inventare l’adolescenza: un’età che inizia subito dopo l’infanzia, ma il cui termine resta incerto, prolungandosi in una tarda adolescenza che ormai lambisce la vecchiaia. Non c’è più nulla che possa rappresentare un prima e un dopo. La circoscrizione obbligatoria è stata abolita[5]. Per molti maschi italiani era rimasta l’ultima tappa esistenziale. Il limite del raggiungimento della maggiore età è stato da tempo “bruciato” dalla progressiva precocità delle esperienze. Come si vestono i giovani? Che programmi guardano alla televisione? Che musica ascoltano?… Ma dovremmo prima di tutto chiederci: qual è il loro mondo simbolico?
Il mondo simbolico oggi viene, spesso, surrogato nel fantasy. Un fantasy misterioso, abitato da vampiri (“buoni”, nel caso di film come Twilight), da personaggi con poteri straordinari (la serie televisiva dedicata ad Heroes), da maghetti (la saga di Harry Potter), da Streghe… Si assiste ad un ritorno del diavolo. Non come identificazione del male, ma come personaggio affascinante e, in qualche modo, circondato da un alone di mistero. Personaggio con fan che si identificano in lui. Personaggio televisivo o cinematografico spesso rappresentato in maniera accattivante. Basta fare una breve ricerca su internet per scoprire miriadi di devil e di demon, tutti avatar virtuali, soprannomi, alter ego.

Oppure assistiamo alla sempre più invadente necessità dell’angelo. Nell’immaginario odierno si presenta sotto molte facce, soprattutto come processo evolutivo del dopo la morte, come conclusione naturale della vita. Un immaginario, però, sempre più svuotato della sua valenza religiosa e simbolica, usato come “riempitivo” di un vuoto che si è creato: le rappresentazioni relative al post mortem. Quando muore un nonno, ai nipotini viene risparmiata la visione della morte e gli si racconta una nuova “favola”: che ora il nonno si è trasformato in angelo e non è più visibile. Questo processo di trasformazione, naturalmente, viene esteso ad ogni morte “precoce”, non risparmiando i bambini, le mamme, i papà, i compagni di scuola… Al tempo stesso nelle culle vivono non più neonati, ma soltanto angeli. Demoni, angeli, fate, maghetti e draghi: un crogiuolo molto new age – da scaffale dei supermercati del misterioso e dello pseudo-religioso –, dal quale sgorgheranno i simboli delle generazioni future?

Il diritto al simbolismo

L’epoca contemporanea è caratterizzata dall’estrema mobilità e dalla diffusa tendenza a lasciare i luoghi di origine per provare ad abitarne altri. Ci si muove per necessità (nella ricerca di un lavoro più redditizio o per sfuggire all’incombere della guerra, della violenza, della fame) o per divertimento. Questa mobilità, resa possibile dalla facilità degli spostamenti di massa, risulta essere senza precedenti nella storia dell’umanità. È una mobilità che mette a confronto non soltanto culture e appartenenze diverse, ma anche mondi simbolici diversi. Si pongono, così, problemi in parte nuovi. Il rispetto reciproco non comporta il nascondimento o la privatizzazione dei propri simboli, ma la conoscenza reciproca ed il riconoscimento dei simboli che non ci sono propri per cultura o per appartenenza. Rinunciare al proprio mondo simbolico sottintende in primo luogo la volontà a non riconoscere il mondo simbolico dell’altro nella sua diversità. D’altra parte non si deve dimenticare che i simboli imposti non sono mai diventati significativi per un gruppo, per un popolo o per una comunità, ma hanno sempre causato forme di rifiuto e di rigetto.

I dibattiti intorno all’uso del velo o all’esposizione dei crocifissi nelle aule pubbliche rischiano di essere fuorvianti. Quello che sta emergendo in questi ultimi anni è un problema più vasto e radicale: la necessità, il bisogno – anzi, il diritto – al mondo simbolico. Al pari degli altri diritti umani fondamentali: il diritto alla vita, il diritto alla libertà individuale, il diritto all'autodeterminazione, il diritto ad un giusto processo, il diritto ad un'esistenza dignitosa, il diritto alla libertà religiosa (compreso il diritto a cambiare la propria religione), il diritto alla privacy. Privare l’uomo del suo mondo simbolico vuol dire privarlo di qualcosa di fondamentale nella sua esistenza. La salvaguardia dell’uso dei propri simboli – anche di quelli religiosi – non si pone più come retaggio di fondamentalismo o di settarismo, ma si va configurando come una nuova sfida per la convivenza civile, per una ricomposizione “laica” e tollerante della società odierna. Se questa sfida non viene raccolta e ci si rinchiude soltanto in false diatribe identitarie il nostro immediato futuro sarà consegnato ad una società che conoscerà la libertà della produzione e del consumo, ma non più quella che scaturisce dalla convivialità, dalle relazioni, dal confronto e dai patti. Non a caso uno degli elementi maggiormente simbolici a livello universale – l’acqua – viene privatizzato e sta diventando usufruibile da parte di gran parte dell’umanità soltanto in quanto come bene di consumo.

La società dei consumi ci sta progressivamente spogliando e scarnificando. Si tratta di un processo che si realizza in maniera molto rapida. Non siamo più considerati come persone in relazione, ma come utenti e clienti. La poesia è ridotta a frasi per cioccolatini, i sentimenti più profondi nascono da un profumo o da un ragù già pronto. Anche l’avventura è già confezionata, a seconda delle possibilità della propria carta di credito. La società dei consumi non può essere simbolica poiché il simbolo richiama l’essenziale, mentre il consumo pretende il superfluo. Se non verrà affermato anche il diritto inalienabile  ai simboli ci ritroveremo ridotti ad abitare in un vacuo, freddo, solitario mondo di vetrine virtuali ricolme di beni da consumare. Ma allora non saremo soltanto abitanti di nonluoghi. Non ci aggireremo soltanto in centri commerciali o in autostrade – che, in realtà, non ci portano da nessuna parte -, anonimi, dispersi in una massa di persone che si incrociano, si scontrano, ma non si incontrano mai. Resteremo aggrappati alle nostre diversità, rinchiusi in noi stessi, paurosi di modificazioni e di contagio, di contaminazioni e di meticciati. Magari, aggrappati a dei miseri simboli che hanno perso tutta la loro valenza, ma a cui ancora attribuiamo una parvenza di possibile identità (perché facenti parte del proprio retaggio storico).

Non-mio-popolo (lo’-‘ammî) e Non-amata (lo’-ruhamah) sono i nomi simbolici che il profeta Osea impone a due dei suoi figli (Os 1,6-8). Il mondo simbolico permette all’uomo di volare in alto, nei vasti spazi della poesia e della mistica, della cultura e dei sentimenti, della fede e della speranza. L’utopia può essere concepita come non luogo, ma al tempo stesso può esprimere desideri e divenire meta verso cui protendersi. Ma ci vuole ben poco a spezzare le ali e ad interrompere questo volo. Al suolo ricadono i frammenti di un’immane tragedia. Ma molto di più viene infranto: il nostro bisogno di appartenere e di sentirci amati. Vale a dire, tutto ciò che di più umano i simboli ci possono donare.


[1] Oltretutto non esiste una sola raffigurazione della croce. Abbiamo, ad esempio, soltanto per citarne alcune: la latina, la greca, l’ortodossa, la commissa (il tau), il Cristogramma e le innumerevoli varianti che ritroviamo nell’araldica. Ed ancora la croce di Gerusalemme, di Lorena, di Malta… Ma la croce non è soltanto un simbolo cristiano e dobbiamo ricordare anche: l’ankh degli antichi egizi, la famigerata svastica dei nazisti, la croce solare dei culti nordici, la croce ariana presso gli indiani.
Se la croce, come simbolo, è patrimonio di varie tradizioni religiose e di molti popoli, bisogna riconoscere che il significato è diverso rispetto al cristianesimo. Infatti è simbolo cosmico, spaziale (i quattro punti cardinali); simboleggia anche il ciclo vitale (croce ariana), l'albero della vita, il succedersi dell’eterno ritorno (croce circolare), l’unione dei contrari (sopra-sotto, destra-sinistra), il tempo (il passato, in basso, il presente, l’incrocio con la linea orizzontale e il futuro, l'alto vale a dire l'ieri, l'oggi e il domani). Per i Maya la croce rappresentava il simbolo del Dio Ah-Can-Tzicnal, detto Il signore dei quattro angoli del mondo. La croce rimanda alla figura umana a braccia aperte (ripresa anche nel celebre uomo vitruviano di Leonardo da Vinci).
Ancora, sempre da un punto di vista simbolico, basta capovolgere la croce ed impugnarla dalla parte più corta che questa viene a rappresentare una spada. Non a caso le crociate sono l’esempio più emblematico di un uso non pacifico della croce, ma del conflitto, dello scontro e della guerra.
Per i romani era lo strumento usato per mettere a morte gli schiavi e quanti non erano cittadini romani (per i cittadini romani era riservata un’esecuzione più “nobile”, la decapitazione). Durante la rivolta degli schiavi capeggiata da Spartaco, i romani crocifissero lungo la via Appia circa settantamila ribelli.
[2] Il velo non può essere interpretato soltanto come strumento di repressione maschilista ed autoritaria. Ridurre la questione del velo ad una simile problema vuol dire non capire anche le altre diverse valenze simboliche che l’accompagnano. La società occidentale, ad esempio, ha ormai dimenticato che l’eros è velato mentre la nudità rischia quasi sempre di trasformarsi in pornografia.
[3] Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a un'antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 2005.
[4] Si tratta del più grande centro commerciale degli Stati Uniti. Ogni anno richiama più di 40 milioni di visitatori e viene inserito dalle agenzie nei tour come una delle mete turistiche.
[5] In quanto a suo tempo obiettore di coscienza, non posso che rallegrarmi della scomparsa dell’obbligo del servizio militare. E sono fortemente contrario ad un suo ripristino. Tuttavia, non si può qui fare a meno di osservare l’eliminazione di tutte le “tappe” simboliche che scandivano la crescita di una persona. Sarebbe stato un vero atto di pedagogia educativa sostituire la circoscrizione obbligatoria militare con qualche forma di impegno e di cittadinanza attiva – in continuazione con la pratica del servizio civile – per i giovani di entrambi i sessi.

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