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Perché la Chiesa si oppone alla pratica degli uteri in affitto?

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Aleteia - pubblicato il 11/02/14
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La maternità surrogata aliena le donne che “prestano” il proprio utero: il corpo femminile non è uno strumento di produzionedi Pierre-Olivier Arduin*

1. La Chiesa si preoccupa per la sofferenza delle donne con sterilità uterina, ma si oppone alla depenalizzazione della maternità surrogata in nome del rispetto della dignità umana.

La Chiesa si sente profondamente interpellata dall’angoscia delle donne con infertilità di origine uterina, sia essa congenita, risultato di un’isterectomia o conseguenza della distruzione patologica dell’utero.

Per superare questa sterilità, alcuni difendono la depenalizzazione della maternità surrogata (ACP), una procedura che fa riferimento a una madre portatrice o gestante la cui funzione è portare un embrione concepito con la fecondazione in vitro, generalmente con i gameti dei genitori che vogliono avere il figlio.

Se la funzione ovarica è deficitaria in sé (caso non raro) o se è il padre non è fertile, i difensori della ACP ammettono che il bambino che nascerà possa essere anche risultato di una donazione di ovocita o di sperma.

La maternità/paternità può essere così divisa tra una madre gestante, una madre genetica, una madre educatrice e/o un padre genetico donatore di sperma e un padre “di intenzione”.

La Chiesa ricorda che la volontà legittima ed eccellente di dare la vita a un figlio non conferisce il diritto al figlio, che permetterebbe ai genitori di rivendicare allo Stato qualsiasi mezzo per raggiungere questo risultato.

Il fine non giustifica i mezzi, dice semplicemente la Chiesa, assicurando uno dei maggiori principi della vita morale personale e collettiva.

Per promuovere il rispetto per la dignità umana in materia, si basa su numerose argomentazioni razionali volte a difendere la madre e il figlio.

2. La tecnica delle madri portatrici si basa sulla strumentalizzazione del corpo della donna trasformato in uno strumento di produzione.

Quanto alla madre portatrice, la strumentalizzazione della persona è manifesta. Il contratto ha di fatto l’intenzione di fornire un “prestito” di utero in cambio di una remunerazione o di una compensazione alla donna che vi si sottopone, conferendo un diritto patrimoniale sul corpo incompatibile con la dignità umana.

Mettendo il proprio corpo a disposizione di quanti lo richiedono, la madre portatrice produce un figlio attraverso il suo strumento di lavoro, l’utero, il che implica una confusione tra gravidanza e semplice fabbricazione di una merce.

Si assiste dall’altro lato a una divisione del lavoro della riproduzione, che può implicare potenzialmente quattro genitori: la madre genetica che fornisce l’ovocita, il padre genetico che fornisce lo sperma, la madre portatrice che riceve l’embrione e lo produce fino alla nascita e la coppia – eterosessuale o omosessuale – che ha il progetto genitoriale.

Come la prostituzione sottrae la sessualità alla vita intima per trasformarla in un servizio disponibile sul mercato, l’uso di una donna come gestante sottrae la maternità alla vita personale e privata per trasformarla in lavoro e in servizio.

L’Accademia nazionale francese di medicina ha avvertito anche il legislatore su una pratica che implica il coinvolgimento di una persona sana in una gravidanza che non è mai esente da rischi ostetrici: aborto involontario, gestosi, diabete, pericoli collegati al parto, impatto psicologico… tutte le complicazioni che devono essere “assicurate” nel contratto.

Quale sarà, inoltre, la responsabilità della madre portatrice se contrae una malattia o adotta un comportamento pericoloso durante la gravidanza (alcool, tabacco, eccesso di sport, medicinali…)?

Dall’altra parte, il contratto dovrà prevedere un periodo di astinenza dalle relazioni coniugali della donna portatrice durante il periodo di impianto dell’embrione? Ma questa clausola di astinenza non sarebbe necessariamente nulla essendo incompatibile con i doveri del matrimonio, senza contare sul fatto che attenta alla libertà e al rispetto della vita privata della donna?

3. La pratica delle madri portatrici contraddice il principio di indisponibilità del corpo umano.

Si potrà argomentare che la madre portatrice è volontaria e perfettamente consapevole di ciò che fa. Alcuni potrebbero anche presentare la teoria del filosofo utilitarista John Stuart Mill (1806-1873) – “su se stesso, sul suo corpo, sul suo spirito, l’individuo è sovrano” -, basando l’autorità del contratto realizzato tra la madre portatrice e i genitori educatori sul consenso libero e chiaro delle due parti.

È innegabile che questa logica individualistica e liberale si estende sempre più a favore della globalizzazione della bioetica, come testimoniano i regimi di autorizzazione instaurati in alcuni Paesi, ma questo non potrebbe ergersi a modello perché i suoi risultati ideologici cozzano profondamente con il patrimonio morale di numerosi Stati. In Europa, il divieto dell’ACP è esplicitamente previsto in Spagna, Francia, Svizzera, Austria, Italia o Germania.

Di fatto, la pratica delle madri portatrici contraddice il principio di indisponibilità del corpo, componente, esso stesso, della dignità della persona umana.

La funzione civilizzatrice della legge è lì per ricordare che la persona non ha il potere di rinunciare alla propria dignità e non può esiliarsi dall’umanità stessa con il suo accordo. Il rispetto per la dignità umana non si adatta a concessioni in funzioni di apprezzamenti soggettivi; esige la protezione della persona e del suo corpo, anche da se stessa.

Visto che il corpo si identifica con la persona, deve beneficiare di questa indisponibilità. Questo principio ha una virtù essenziale: preserva dalla “mercantizzazione” del corpo umano. Ciò permette di evitare che i più poveri siano tentati di abdicare dalla propria dignità vendendo l’unica cosa che hanno, il proprio corpo. Di fatto, si sono mai viste donne ricche prestare il proprio utero a donne povere?

È innegabile che la maternità surrogata porta a una “cosificazione” della madre portatrice. La donna svolge qui la funzione di uno strumento di produzione, mettendo al servizio di terzi la parte più intima del proprio essere, ciò che la distingue come donna: la sua capacità gestazionale. Chi dà alla luce, quindi, agisce non come una vera madre, ma piuttosto come una macchina che fabbrica il figlio per poi consegnarlo alla coppia che lo ha richiesto.

4. La pratica delle madri portatrici tratta il figlio come una cosa della quale ci si può appropriare.

Nella sua prima enciclica, Benedetto XVI ha messo in guardia contro la “cosificazione” sfrenata dell’essere umano che si impone a causa del relativismo. L’uomo “ora considera il corpo e la sessualità come la parte soltanto materiale di sé da adoperare e sfruttare con calcolo. (…) Ci troviamo di fronte ad una degradazione del corpo umano, che non è più integrato nel tutto della libertà della nostra esistenza, non è più espressione viva della totalità del nostro essere, ma viene come respinto nel campo puramente biologico. (…) L’uomo stesso diventa merce”.

Se la maternità surrogata strumentalizza la donna trasformandola in uno strumento vivo, implica anche una “cosificazione” del figlio che offende la sua dignità. Di fatto, la madre portatrice si impegna a cedere il figlio che ha portato in sé operando un atto di disposizione relativo a una persona. A ciò segue una “cosificazione” del figlio, trattato non come un soggetto di diritto, ma come un oggetto di credito o come qualcosa di dovuto a causa di un contratto.

L’atto di rinunciare a un figlio e di cederlo in cambio di una retribuzione lo porta nel mondo delle cose, appropriabili e disponibili, al contrario della persona, radicalmente indisponibile. Le cose hanno un prezzo, e l’essere umano ha una dignità: questa è una delle leggi della nostra civiltà.

Riducendo il figlio a qualcosa di commerciale, è logico che si metta in discussione la qualità del prodotto negoziato nel contratto. Cosa succederebbe se il figlio non rispondesse al desiderio di quanti lo commissionano in caso, ad esempio, di handicap o di malformazione? Per evitare questa possibilità, in genere si propone di prevedere a beneficio della madre portatrice un clausola di rottura del contratto esigendo che eserciti il suo”dovere di aborto”.

5. La pratica delle madri in affitto spezza il delicato rapporto che si stabilisce tra la madre e il figlio durante la gestazione.

Considerando sensato rispondere a qualsiasi prezzo ai desideri degli adulti, la pratica dell’ACP ferisce un bambino che non ha prezzo.

La madre portatrice si impegna ad abbandonarlo alla nascita, dopo i nove mesi di gravidanza. Si pone quindi obbligatoriamente – non farlo sarebbe solo un meccanismo di autodifesa – in una situazione di abbandono psicologico di questo figlio. Ma potrà essere davvero così quando lo sentirà muoversi dentro di sé?

È possibile che la donna gestante sia madre. Come si sentiranno allora i suoi figli constatando che la madre dà via quello che avevano il diritto di considerare il proprio fratellino o la propria sorellina? “Come credere che l’atto di queste donne sarà esente da complessità neurotiche potenzialmente patologiche per loro, per i loro figli e per quello che avranno abbandonato?”, si chiede la psicoterapeuta Catherine Dolto.

La pratica dell’utero in affitto non dà alcuna importanza al rapporto materno-fetale in un momento in cui questo è oggetto di un numero sempre più alto di ricerche per analizzare il suo contributo nel dare forma alla personalità dei due attori più importanti: il figlio e la madre.

Questa lacerazione programmata del vincolo madre-figlio rappresenta un grande controsenso rispetto alle nuove scoperte mediche e a quella che può essere definita la scienza della vita intrauterina.

Il teologo francese Xavier Lacroix, membro del Comitato consultivo nazionale di etica, ricorda che “la gestazione e il parto danno luogo a un’interazione enorme tra il corpo della donna e quello del figlio, che sente le emozioni di sua madre ed è sensibile ai suoi sogni. Quanto alla donna, ha luogo tutto un processo che si chiama attaccamento: fa quindi rabbrividire l’idea di una gravidanza vissuta nell’indifferenza”.

Gli ultimi dati medici dicono infatti che la madre mantiene per un periodo di tempo molto lungo la memoria del figlio portato in sé, grazie alla circolazione di cellule fetali nel proprio corpo.

Il figlio in utero individua numerose molecole odorose nel liquido amniotico e si impregna di questo universo olfattivo e gustativo che ritroverà alla nascita nel latte materno e nella pelle della mamma. Per non spezzare questo legame, i medici mettono subito dopo il parto il neonato sul petto della madre per restituirgli i suoi marcatori prenatali memorizzati e inscritti da lui come identificatori.

Il bambino ha poi una sensibilità vestibolare particolarmente sviluppata, al punto che gli scienziati affermano che è un “grande orecchio”: percepisce la voce della madre, del padre, quella dei suoi fratelli e delle sue sorelle, le memorizza con brio. Queste tracce della memoria perdurano in modo sorprendente per molto tempo.

“Nelle ore che seguono il suo arrivo nel mondo, è essenziale che il neonato possa dire: loro stanno bene, quindi io sto bene”, constata Catherine Dolto.

L’impatto dello stato emozionale della madre sul figlio è tale che dei ricercatori inglesi hanno stabilito un legame tra un dolore vissuto nel primo trimestre della gravidanza e l’aumento del 67% del rischio di schizofrenia e disturbi associati nel bambino. Si valutano le ripercussioni di questa pratica sullo sviluppo psichico e sulla costruzione dell’identità del bambino? Chi oserebbe prendersi la responsabilità di autorizzare una procedura tecnica della quale il bambino è deliberatamente la vittima?

6. La pratica della maternità surrogata non è una modalità di adozione.

I genitori adottivi soccorrono un bambino che già esiste ed è orfano dei genitori naturali. La splendida scelta della paternità e della maternità adottive non è all’origine del bambino, non causa la sua esistenza, non lo fa fabbricare. È questa la grande differenza. I genitori adottivi si collocano in una logica di accoglienza di un bambino già nato. Aprono le braccia e la propria casa a questo bambino dal passato doloroso.

Il bambino non è costruito per il loro desiderio, ma ricevuto da un altro, ovvero dai genitori scomparsi. I genitori adottivi entrano così in una dinamica di partecipazione a una storia, in un progetto che li trascende e del quale non sono i primi responsabili.

Con l’adozione si offre una famiglia a un bambino privato della propria. La società supera meglio una situazione in cui nessuno voleva il figlio. Con la gestazione da parte di un altro si suscitano con cognizione di causa difficoltà senza preoccuparsi del figlio.

Catherine Dolto lo afferma con vigore: “Si può soffrire per il fatto di non avere figli e l’adozione non è sempre facile, ma ci saranno sempre bambini da amare, da sostenere, da accompagnare, anche senza vincolo di parentela genetica con loro. Senza possesso”. Questa è la fecondità, esigente ma fonte di gioia, che mostra la Chiesa ogni volta che offre il suo discernimento in materia di assistenza medica alla procreazione.

*responsabile della commissione di bioetica dell’Osservatorio socio-politico della diocesi di Fréjus-Toulon

RIFERIMENTI:

Istruzione Donum vitae II, A, 3.

Sylviane Agacinski, Corps en miettes, Flammarion, p. 98.

Roger Henrion e Claudine Bergoignan-Esper, La gestation pour autrui, Bull Acad Natl Med 2009, tomo 193, 10 marzo 2009, n. 3.

Aude Mirkovic, A propos de la maternité pour autrui, Droit de la famille, Revue mensuelle Lexisnexis Jurisclasseur, giugno 2008, p. 10.

Mons. Pierre d’Ornellas, Bioéthique. Propos pour un dialogue, Lethielleux/Desclée de Brouwer, 2009, pp. 77-78.

Benedetto XVI, enciclica Deus caritas est, n. 5.

Istituto europeo di bioetica, Gli accordi delle madri portatrici, 2006, Bruxelles.

Catherine Dolto, Mères porteuses: l’humanité de l’enfant en péril, Le Figaro, 20 dicembre 2008.

La Croix, 26 giugno 2008.

Myriam Szejer e Pierre Winter, Abandon sur ordonnance, Libération, 23 luglio 2008.

Olivier Bonnewijn, Ethique sexuelle et familiale, Editions de l’Emmanuel, Paris, 2006, p. 276.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]