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I malati veri e i Braccialetti rossi

A boy, patient of the oncology unit – it

AFP PHOTO / NATALIA KOLESNIKOVA

RUSSIAN FEDERATION, Moscow : A boy, patient of the oncology unit, plays chess in the RDKB (a Сyrillic acronym for Russian Children's Clinical Hospital) in Moscow, on November 10, 2011 in Moscow. AFP PHOTO / NATALIA KOLESNIKOVA

Vinonuovo.it - pubblicato il 10/02/14

E se davanti al televisore ci fosse una ragazzina ammalata di cancro?

di Francesca Lozito

Ho guardato dieci minuti della fiction Braccialetti rossi e poi ho cambiato canale. Ho immaginato che al posto mio nel vedere la scena in cui due ragazzini minorenni si guardano da soli i referti ci fosse una ragazzina malata di cancro. Ho immaginato la sua vertigine di fronte a una scena così irreale, sbattuta in prima serata in pasto al demone dell’audience. Ma soprattutto in barba alla compassione umana. Mi sono sentita molto vicina a lei. E per lei sto scrivendo questo post.

Lo sto scrivendo per la sua forza. È guarita. Ha una ferita nel corpo, segno della chirurgia subita. Ma non si vede a occhio nudo. I suoi capelli sono ricresciuti da anni. Ma non sopporta di vedere ancora esibita la retorica della pelata nei malati di cancro come uno stigma sociale che la fa rabbrividire.

Non ha mai avuto compagni di malattia. Per anni si è chiesta se ne esistessero. Poi ha conosciuto Anna che è entrata in Guardia di Finanza. Ovviamente mentendo sui suoi trascorsi di malattia. Perché chi guarisce da un cancro anche dopo vent’anni per la medicina non è ancora dichiarato guarito. E col cavolo che ti fanno un’assicurazione sulla vita, soprattutto se fai un mestiere a rischio. Le due si sono piaciute moltissimo. Sono due resilienti.

Quella ragazzina alla fiction tutta incentrata sulla retorica di una compassione di maniera che troppo spesso oggi avanza in tante, troppe situazioni da palcoscenico – ha sempre rifuggito il genere "io sopravvissuto ora vi dico come si combatte la malattia" – preferisce di certo un film come "Il grande cocomero". È di un po’ di anni fa ma lo ha visto. E amato tantissimo. "La vita è una e te la giochi con la faccia che hai" dice più o meno il protagonista. Pare che la frase sia stata detta dal personaggio della vita reale a cui è ispirato, Marco Lombardo Radice. Lui era medico. Si sentiva come Salinger, lo scrittore, "Il raccoglitore nella segale".

Nella scena in cui uno dei bimbi del reparto muore e gli fanno il funerale il prete cita Dostoevskij: "Signore perché i bambini muoiono?" "Perché?". Non c’è una risposta fatta di parole. C’è tanto non detto.

Ci sono gesti e un passaggio di testimone. Chi guarisce lo ha nelle mani anche se non ne è consapevole. Ma lo diventa nel corso degli anni. Prende su di sé i nomi di tutti quelli che non ci sono più. Acquista la consapevolezza che con il passare degli anni questo secondo giro di giostra lo sta facendo anche nel loro nome. Sceglie i mestieri più improbabili o quelli più comuni. Fa cazzate come tutti. Si perde. Passa periodi in cui non vorrebbe vivere e si chiede cosa ci sta a fare. Litiga coi genitori. Si allontana dagli amici. Si costruisce un suo mondo. Crede di non essere capace di amare. Come un qualunque adolescente. Come tutti. Novello Giobbe se la prende con Dio.

E poi a salvarlo o a salvarla è la comunità degli uomini che da quel Dio è amata sempre comunque e per sempre. Quella che sa d’istinto e senza troppi giri di parole che la malattia è un mistero da trattare con il dovuto rispetto. E da curare, nella terra degli uomini, ognuno a modo proprio con l’amore che salva.

qui l’articolo originale

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