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Eluana Englaro. 5 anni dopo, cosa è cambiato?

Stato vegetativo, chi aiuta i pazienti?

@DR

Aleteia - pubblicato il 10/02/14

Tante le questioni aperte sul fine vita e una grande domanda: come stare davanti a un dolore così?

Sono passati cinque anni quando si concluse nel modo più drammatico la delicata vicenda di Eluana Englaro. Quei giorni, in cui lo scontro ideologico divideva in due l’opinione pubblica, non sono serviti a costruire una risposta credibile ad un dramma che, nel nostro Paese, riguarda migliaia di persone e le loro famiglie.

Tutto fermo sul “fine vita”
Oggi – come si legge da un articolo di Maurizio Cei pubblicato il 9 febbraio su gonews.it – il dibattito sul fine vita sembra si sia fermato. Anche i parlamentari che provarono, nelle ore precedenti alla morte di Eluana, a legiferare in materia con un decreto legge, per fermare l’interruzione dell’alimentazione artificiale consentita dalla Corte di Cassazione che respinse l’appello della Procura di Lecco, una volta spenti i riflettori sulla triste vicenda di Eluana, non si sono più occupati della questione. E ora, a distanza di cinque anni, non si registra nessun intervento normativo sull’argomento. Anche sul limite fra cura e accanimento terapeutico manca una decisione chiara, non solo a livello politico, ma anche da parte della scienza e del comitato di bioetica.

Il dovere dello Stato e la libertà della persona
Solo una presa di posizione su questo argomento potrà evitare il rappresentarsi di situazioni analoghe a quelle di Eluana. E solo da questa chiarezza potrà nascere un percorso positivo sui temi legati al fine vita, come quello sul testamento biologico, che tengano insieme il dovere dello Stato di mettere in campo tutte le forze possibili per tutelare la vita di ogni essere umano e quelle dell’individuo che, coscientemente e responsabilmente, può mettere un limite all’intervento e all’ingerenza dello Stato stesso sulla propria vita.

Qualche proposta ma nessuna risposta
Eugenia Rocella, dalle pagine di Avvenire del 10 febbraio, dice che per far fronte a questa problematica ci sarebbero già alcuni strumenti. “Ci sarebbe un budget da 60 milioni l’anno, stanziati dal 2009, per finanziare alcuni progetti a sostegno di casi come questo. E ci sono le linee-guida che abbiamo varato per intervenire su un problema che riguarda molte famiglie. Fra l’altro – prosegue l’ex-sottosegretario alla Salute – anche come costi il coinvolgimento previsto delle associazioni in chiave sussidiaria consentirebbe di evitare costosissime e disumane ospedalizzazioni». Invece, anche sul piano operativo non ci sono ancora risposte. Spiega Gianluigi Gigli, dei Popolari per l’Italia, la scorsa legislatura coordinatore del gruppo di lavoro sugli stati vegetativi del ministero della Salute: «La strada è quella tracciata dall’accordo Stato-Regioni del 5 maggio 2011, che però è rimasto fermo».
Anche Gigli prova a sollecitare, ripartendo da quell’accordo: «Si tratta di prendere atto – spiega – che la scienza è andata avanti, ha creato nuove speranze e nuove acquisizioni che documentano la coscienza sommersa di queste persone, tanto che anche la definizione stessa di stati vegetativi inizia a stare stretta».


Come vivere la sofferenza? 
Di fronte a un dramma come questo, e al di là delle decisioni socio-politiche, resta sempre una domanda: come si può stare davanti a un dolore così grande? Come si può sopportare la sofferenza quando supera la nostra misura umana?
Benedetto XVI aveva ricordato che per sperare “l’essere umano ha bisogno dell’amore incondizionato. […] Se esiste questo amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora – soltanto allora – l’uomo è redento, qualunque cosa gli accada.” (Spe Salvi).
E questo amore è stato testimoniato da molte persone che hanno vissuto accanto a Eluana, come le suore che l’hanno accudita per tanti anni.

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