Solzenicyn fa molto più di dichiarazioni documentali come questa. In Lenin a Zurigo, torna indietro a prima dell'improvvisa ascesa al potere di Lenin – come una zampa di gatto della Germania del kaiser, che era disposto a tutto per spingere la Russia imperiale fuori dalla guerra – per esplorare come un intellettuale dal grande talento, la cui politica era impeccabilmente “progressista”, potesse essere allo stesso tempo un dogmatista ristretto e amaro con la fredda voglia di uccidere civili disarmati a migliaia e di deportarne molti di più nei campi di internamento a morire di freddo o di fame. Nel romanzo, Solzenicyn raffigura i conflitti di Lenin con i socialisti rivali in esilio, che egli cercò di guidare con soprusi o lusinghe. Essendosi convinto di essere arrivato all'unico piano d'azione plausibile per mettere in pratica il marxismo, considerava chiunque avesse un'idea diversa perfino sulle tattiche come un sabotatore. La tattica di Lenin, come ripeteva sempre, era “dividere il partito” finché non avesse eliminato chiunque non fosse totalmente docile. Ciò che rimaneva erano i superstiti di una fazione, che nel 1917 fuggirono in esilio in Svizzera lasciandosi dietro pochi legami in Russia. Mentre la narrazione procede, Lenin appare sempre più come un fanatico teorico di cospirazioni che trascorre i suoi giorni inutilmente tiranneggiando una banda di fanatici e di seguaci servili ormai in calo. Sembra poco plausibile che un uomo di questo tipo sia arrivato a gestire un posatoio, e la terribile consapevolezza del fatto che presto otterrà un potere assoluto di vita e di morte su un vasto impero continentale imbeve il romanzo di un'ironia quasi insopportabile. Leggerlo è come guardare un autobus pieno di rifugiati innocenti cadere in un dirupo, in un rallenty straziante.
Al di là dei piani machiavellici di uomini come il generale tedesco Erich Ludendorff (che in seguito sosterrà Hitler contro la minaccia bolscevica che egli stesso aveva scatenato), quindi, cosa spiega l'ascesa di Lenin come dittatore? È, come suggerisce Solzenicyn, proprio il suo dogmatismo, la sua salda sicurezza settaria della rettitudine delle proprie azioni. In una Russia la cui l'intellighenzia liberale conosceva solo una cosa per certo – non ci sono nemici a sinistra –, non c'era alcun partito coerente che rappresentasse la riforma moderata. Il prudente ministro modernizzatore Pyotr Stolypin, che serve da eroe tragico di tutta l'epica di Solzenicyn, era stato assassinato anni prima, e i suoi sostenitori erano stati estromessi dal potere. Il regime dello zar era difeso solo dai bigotti, timidi o venali, mentre coloro che chiedevano le riforme erano così insaziabili nel volerlo detronizzare e nel cancellare la storia russa che nessun radicale a sinistra avrebbe mai potuto sembrare pericoloso.
Aleksandr Kerensky, che aveva formato il Governo provvisorio dopo l'abdicazione di Nicola II, fece poco per ostacolare le mosse ovvie di Lenin verso la conquista del potere militare. Quando socialisti meno radicali guardavano ai loro colleghi più fanatici, ciò che provavano non era una paura prudente, ma una sorta di cattiva coscienza – quasi come se la loro moderazione fosse una prova di codardia. I lettori del Radical Chic di Tom Wolfe riconosceranno questo modello psicologico, ricordando Leonard Bernstein che ospitava le Pantere Nere criminali e antisemite nel suo elegante appartamento newyorkese. Nel corso degli anni Settanta, le élites europee di sinistra avrebbero mostrato la stessa indulgenza con le Brigate Rosse, l'OLP e la banda Baader-Meinhof, come documenta Michael Burleigh in “Blood and Rage: A Cultural History of Terrorism”.