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Una piccola teologia poetica che sa stare in ginocchio

Deep in Prayer – it

© Alain PINOGES / CIRIC

padre Antonio Spadaro - Queriniana Editrice - pubblicato il 03/02/14

Postfazione alla nuova edizione di Karl Rahner, “Tu sei il silenzio”

Ahimè, non dovremmo domandarci una buona volta: dove sono mai i bei tempi nei quali i grandi teologi erano anche poeti e componevano inni? Quando potevano scrivere come un Ignazio di Antiochia o poetare come Metodio d’Olimpo o aprire il loro animo in inni come Adamo di S. Vittore, Bonaventura e san Tommaso d’Aquino? Dove sono finiti quei tempi? E la teologia è forse divenuta più sublime, perché oggi i teologi scrivono in prosa?[1]

Così scriveva Karl Rahner in un saggio introduttivo all’opera di un suo confratello gesuita poeta, Jorge Blajot.

Se von Balthasar diceva che alla teologia moderna manca il saper stare in ginocchio, Rahner è convinto che «manca la teologia capace di fare poesia»[2]. In questo Rahner vede un forte carenza: la teologia razionalistica lavora solo in modo ‘scientifico’ e ad essa manca l’elemento poetico: manca l’elemento ‘mistagogico’ e cioè non guida l’uomo a fare un’esperienza reale e originaria di ciò che viene espresso in concetti.

Tu sei il silenzio dunque nasce da un’esperienza che leggiamo nel presente libretto: «La stessa tua rivelazione in parole umane», scrive Rahner rivolgendosi al suo Signore, «non acquieta la nostalgia del cuore, mentre la mia anima si stanca nelle mille parole che noi diciamo di te, senza poterti raggiungere». Bisogna tentare un’altra strada che allevi la ‘stanchezza’ della teologia, del discorso su Dio grazie al colloquio con Dio. Qui siamo davanti proprio a una piccola teologia poetica che sa stare in ginocchio.

Nel 1913 p. Léonce de Grandmaison, gesuita come Rahner, all’interno di uno studio su La religione personale, aveva ricordato che

S. Francesco d’Assisi, in certi giorni di melanconia, si faceva una specie di violino con due rami raccolti a caso, e si studiava di riprodurre, su questo strumento improvvisato, i gesti consueti che spesso risuscitavano in lui, con l’emozione della sua anima musicale, la pace e la gioia interiori[3].

Rahner in questa raccolta compie un gesto simile con le parole. Egli, che amava la musica e l’arte, sapeva bene che esse sono in grado di esprimere la postura spirituale[4]. Tuttavia era convinto del fatto che il cristianesimo come religione della parola annunciata, della fede ascoltata e di una sacra Scrittura ha indubbiamente un’intima e particolare relazione alla parola. Dio non si è rivelato in musica, in suoni armonici, ma in parole precise[5].

L’uomo, d’altra parte, da sempre ha ‘parlato’ con Dio e da sempre ha fatto esperienza di sé come in ascolto di una possibile sua rivelazione. Rahner ben fotografato la condizione dell’essere umano con i titoli di due sue opere: un «uditore della parola» (Hörer des Wortes) che rivolge «parole al silenzio» (Worte ins Schweigen), che è poi il titolo originale di questo libretto. L’uomo è plasmato interamente dallo spirito e perciò ha l’orecchio teso, come un radar. La parola in quanto tale è saldamente tesa, innestata nella vicenda del rapporto tra Dio e uomo. Da questa convinzione nasce Tu sei il silenzio. Nasce in particolare da una esperienza che così Rahner descrive in questo libretto in forma di colloquio:

Affinché cessi da me il terrore della tua infinità, tu devi rendere finita la tua parola infinita, che possa entrare nella mia piccolezza, che le si adatti senza distruggere la piccola dimora in cui solo può vivere il mio essere finito. Allora la potrò comprendere, senza che l’infinità tua e della tua parola metta la confusione nel mio spirito e l’angoscia nel mio cuore. Nel tuo verbum abbreviatum, nella tua ‘parola rimpicciolita’, che non dice tutto, ma qualcosa che io posso intendere, io ritroverò ancora il respiro. Tu devi assumere una parola umana a tua parola e questa devi dirmi.

Da questa esperienza della parola di Dio nasce il desiderio di Rahner: «Con te voglio parlare». Sono queste le prime parole di Tu sei il silenzio.

E tuttavia queste parole di fede accesa non sono fatte per essere meditate, ma per essere pronunciate. Il ‘lettore’ è chiamato ad assumerle per fare il proprio unico e irripetibile discorso a Dio. Sono parole-esercizio, sulle quali, secondo la tradizione ignaziana, il lettore è chiamato a articolare il proprio testo, il suo proprio linguaggio di colloquio con Dio. Chi ha fatto gli Esercizi spirituali sa bene che Ignazio di Loyola chiede di concludere la preghiera con un ‘colloquio’ che «si fa parlando veramente, come un amico parla all’altro amico, o un servo al suo signore: ora chiedendo qualche favore, ora accusandosi per qualche manchevolezza, ora comunicando le proprie cose e chiedendo consiglio su di esse» (Esercizi spirituali, 54). Le «parole al silenzio» dunque non sono ‘preghiere’, ma ‘colloqui’ sui quali il lettore può costruire il proprio discorso a Dio.

Pronunciandole, allora ci si rende conto che qui la parola non «esprime, denomina e distingue, limita, definisce, avvicina, fissa e ordina»[6], come suo solito. In questa parola di colloquio con Dio si innesta il paradosso che agisce proprio sulla capacità nominativa della parola stessa. Qui ciò che è nominato, è ‘evocato’. La parola qui non è un righello che squadra, ma un luogo di evocazione e di risonanza del mistero di Dio. Lo hanno scritto spesso i poeti:

Inutile farla lunga,
girarla, rigirarla
allo spiedo, al rovello
dell’attenta osservazione,
l’analisi, la sintesi,
i discorsi sul metodo[7].

Le parole di Rahner qui sono, come lui le ha definite, ‘parole-conchiglia’, capaci di evocare nella loro finitudine l’infinità di Dio. E questa conchiglia è in grado di contenere tutta la vita dell’uomo, dell’orante. L’uomo che si raccoglie, senza temere il silenzio, non produce il vuoto assoluto e sconfinato. Il raccoglimento del cristiano porta misteriosamente con sé il mondo in cui l’uomo era uscito in precedenza. Se l’uomo non facesse questo, infatti, egli non riuscirebbe a ritrovare se stesso in Dio. Dio non potrebbe afferrarlo.

E così le parole-preghiere di Tu sei il silenzio sono «cariche» – proprio in senso elettrico – della vita quotidiana, dei «miei poveri giorni» e dei «miei fratelli». In questo senso le parole possono raccogliere anche l’esperienza del buio, dell’oscurità e rivelare questa condizione come il calco vuoto di una presenza fortissima come ci hanno insegnato i versi roventi di Pär Lagerkvist:

Uno sconosciuto è il mio amico,
uno che io non conosco.
Uno sconosciuto lontano lontano.
Per lui il mio cuore è pieno di nostalgia.
Perché egli non è presso di me.
Perché egli forse non esiste affatto?
Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza?
Che colmi tutta la terra della tua assenza?

Rahner lo aveva scritto e ne era convinto profondamente:

Fintanto che in una parola non ci afferra l’inafferrabilità di Dio, se non ci alletta ad entrare nella sua lucente oscurità, se non ci fa uscire dalla casupola della realtà segretamente e familiarmente comprensibile verso la notte inquietante, che sola è la vera patria, noi non avremo capito, o avremo capito male tutte le parole del cristianesimo[8].

Dicendo «Con te voglio parlare», dunque, l’autore di questa pagine vuole porsi nella condizione di essere afferrato da Dio a cui sta parlando. E invita colui che con lui le pronuncia a fare la stessa esperienza ad «alto potenziale». È, in definitiva, ciò che Rahner chiama ‘raccoglimento’[9].

Questa esperienza spirituale vive di una tensione escatologica verso quel momento in cui «sarà muta ogni parola umana», e finalmente «essere e sapere, conoscenza ed esperienza saranno una cosa sola». Da quel momento, scrive qui Rahner, «non ci sarà parola umana, né immagine, né concetto fra me e te; tu sarai la mia parola del giubilo dell’amore, della vita che riempie ogni spazio della mia anima». Mentre adesso viviamo il tempo delle tante parole necessarie ma fortunatamente insufficienti, non definitive, che dunque non possono che articolarsi in un colloquio senza fine, di cui Tu sei il silenzio è una semplice, umile tappa.

_________________________

Note

1. K. RAHNER, Sacerdote e poeta, in La fede in mezzo al mondo, Edizioni Paoline, Alba 1963, 131-173, qui 170s.

2. ID., L’arte nell’orizzonte della teologia e della pietà, in Società umana e Chiesa di domani. Nuovi saggi X, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1986, 478-490, qui 482.

3. L. DE GRANDMAISON, La religione personale, Morcelliana, Brescia 1948, 29s.

4. Cfr., per esempio, RAHNER, L’arte nell’orizzonte della teologia e della pietà, cit., e Id., Una canzone da nulla, in La fede che ama la terra. Meditazioni per i cristiani impegnati nel mondo, Edizioni Paoline, Francavilla a Mare 1968, 251-254.

5. Cfr. ID., Sacerdote e poeta, cit., 145.

6. ID., La parola della poesia e il cristiano, in Saggi di spiritualità, Edizioni Paoline, Roma 1965, 231-251, qui 234.

7. B. CATTAFI, Metodologia, in L’osso, l’anima, Mondadori, Milano 1964.

8. RAHNER, La parola della poesia e il cristiano, cit., 236.

9. ID., La Biblioteca parrocchiale – Principi per una teologia del libro, in Missione e Grazia. Saggi di teologia pastorale, Edizioni Paoline, Roma 1964, 693-725, qui 711.

Karl Rahner
TU SEI IL SILENZIO

Nuova edizione rivista con Postfazione di Antonio Spadaro
Editrice Queriniana, Brescia 2013

Meditazioni 39
pagine 104

© 2014 by Teologi@Internet
Forum teologico diretto da Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)

 Qui l'articolo originale

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