La retorica sta uccidendo una lodevole iniziativa di conoscenza e condivisione della tragedia della Shoah?di Ulianova Radice
Due donne, entrambe ebree, in questi giorni di frenetico attivismo per l’avvicinarsi del Giorno della memoria della Shoah, hanno espresso pubblicamente il loro disagio assestandoci un bel pugno nello stomaco.
Anna Foa ha scritto un editoriale per Gariwo in cui manifesta profonda preoccupazione per il muro sempre più alto che parte del mondo ebraico erige come trincea dietro cui barricarsi nella difesa dell’unicità dello sterminio degli ebrei. Un timore parossistico della banalizzazione che spinge a considerare ossessivamente qualsiasi altro fenomeno storico genocidario come del tutto incomparabile e quindi, in ultima istanza, minore. Un isolamento dal resto del mondo, una chiusura e un ripiegamento nel dolente ricordo delle vittime, che fa solo male a chi lo pratica.
Elena Loewenthal ha intitolato il suo ultimo libro, non a caso uscito proprio in questi giorni, “Contro il Giorno della Memoria”, in cui rivendica la sua voglia di dimenticare per la sofferenza estrema che il ricordare suscita. Un malessere quotidiano, snervante, acuto, continuo, che toglie le forze e diventa ossessivo. Se poi ci si mettono anche gli “altri”, i non ebrei, a risvegliare questo dolore, per adempiere al dovere della memoria concentrandolo in un unico specifico giorno nel retorico ritornello di “non dimenticare perché non si ripeta”, la condizione ebraica ne risulta paradossalmente penalizzata, rendendola insostenibile.
Elena ci richiama alle nostre “colpe” di non ebrei, ci ricorda che la memoria della Shoah è memoria dello sterminio, che riguarda chi l’ha perpetrato, non chi l’ha subito. La sua rabbiosa rivendicazione dell’oblio ci obbliga a fermarci, a prendere in considerazione un punto di vista su cui non avremmo mai voluto ragionare perché ci ricorda le nostre responsabilità collettive.
La stessa profonda sofferenza si avverte nelle parole di una terza donna ebrea, la figlia di Liliana Segre, che ha descritto sulla prima pagina del Corriere della Sera il calvario dei figli dei sopravvissuti, per i quali è proibita persino la gioia di togliere dal forno una torta fatta in casa. Un racconto agghiacciante in risposta al disgraziato paragone di Silvio Berlusconi sui suoi figli “perseguitati come gli ebrei”.
Sono una donna anch’io e ricordo un’altra donna, mia madre, che ha visitato con me il campo di Buchenwald quando avevo 11 anni. Ricordo poco di quello che ho visto, ero ancora incapace di cogliere l’enormità di quella tragedia. Ma ricordo perfettamente – e questo ricordo è rimasto indelebile nel mio vissuto, penetrando la mia identità – l’estrema sofferenza di mia madre, la sua incapacità, per molti mesi dopo quella visita, di dormire senza essere svegliata dagli incubi. Ricordo in particolare l’orrore che non la lasciava per quei paralumi fabbricati con la pelle umana, dei prigionieri, esposti nel museo del lager. Ricordo la sua nausea, la sua pietà, il suo rispetto per quel popolo così tragicamente perseguitato. È stata la sua sofferenza a farmi sentire ebrea – io che non ho questa origine e che nulla conoscevo dell’ebraismo. Un sentimento che non mi ha più abbandonata e che ha accompagnato il percorso della mia vita, fino a spingermi a partecipare alla fondazione di Gariwo e a dedicarvi tante energie. Perché troppa sofferenza impedisce di pensare, toglie lucidità, sminuisce la nostra capacità di comprensione.
Occorre riflettere sui meccanismi dello sterminio degli esseri umani da parte di altri esseri umani. Occorre riflettere sugli antidoti, semmai ce ne sono. Capire se il genere umano ha qualche chance su questa terra. Per questo mi occupo di Giusti, per mantenere lucidità nella speranza che non tutto è perduto, e auguro, in questo giorno di nefasta memoria, a tutti i giovani, di incontrare lungo la loro strada donne come mia madre, insegnanti, amiche, capaci di trasmettere una partecipazione alla sofferenza che si risolva nel suo contrario: combattere il pregiudizio, lavorare per il Bene, sforzarsi di credere nell’Umanità, nonostante tutto.