Moriva cinquant’anni fa. Sorda e cieca, affrontò la malattia come una via per conoscere DioIl 23 gennaio ricorrono i cinquant'anni dalla morte della venerabile Benedetta Bianchi Porro, giovane ragazza di Dovadola (Forlì), morta a Sirmione a 28 anni a causa di una rara malattia.
Ancora piccola Benedetta viene colpita da poliomielite, la quale le lascia come conseguenza l'accorciamento della gamba destra. Eppure, si legge in un articolo pubblicato su “Credere” (19 gennaio), saprà vivere questa esperienza di infermità dandole una coloritura profonda: “Io so che attraverso la sofferenza il Signore mi conduce verso una strada meravigliosa”; “Io so che in fondo alla via, Gesù mi aspetta”. Del suo “calvario” sappiamo attraverso gli scritti racchiusi nei diari, un autentico scrigno spirituale, che la made le impose di scrivere così come a tutti gli altri figli.
Si appassiona presto alla lettura di Dostoevskij e successivamente agli autori classici cristiani quali sant'Agostino, san Francesco, santa Teresa d'Avila, santa Teresa di Gesù Bambino e quindi la Sacra Scrittura.
Nel 1957 subisce il primo di una lunga serie di interventi al capo. In una lettera all'amica Maria Grazia, compagna universitaria, scrive: “Alla fine di giugno mi sono operata d'urgenza; non ti spaventare, neurofibroma all'acustico…vorrei dirti come sono conciata, ma temo di non riuscirci. In occasione dell'operazione mi tagliarono i capelli a zero e ora la mia testa assomiglia molto a una spazzola per abiti; inoltre in seguito all'intervento, mi si è paralizzato il facciale di sinistra (“per un errore del medico!”) e così a fine settembre dovrò rientrare in clinica per rimettermi a posto la faccia. Ti confesso che a volte mi sento terribilmente depressa”.
Un anno dopo, sempre all'amica Maria Grazia, scrive: “Io penso che cosa meravigliosa è la vita (anche nei suoi aspetti più terribili), e la mia anima è piena di gratitudine e amore verso Dio, per questo…Faccio la vita di sempre; pure a me sembra così completa! La vita in sé e per sé mi sembra un miracolo e vorrei poter innalzare sempre l'inno di lode a Chi me l'ha data”.
Nel 1963 la marcia inarrestabile del male ha ormai bloccato tutti i centri vitali, provocando cecità, perdita della mobilità degli arti, del senso del gusto e olfatto. La sensibilità rimasta nella mano destra e un filo di voce fanno da ponte di comunicazione con il mondo esterno. Allora attraverso un alfabeto di segni e tocchi convenzionali, racconta ancora la rivista “Credere”, Benedetta “legge” i messaggio degli amici e risponde servendosi ordinariamente della madre.
Di tutto questo ne parla rispondendo a Natalino, con una lettera divenuta ormai il suo manifesto: “Anch'io, come te, ho ventisette anni, e sono inferma da tempo. Un morbo mi ha atrofizzata, quando stavo per coronare i miei lunghi anni di studio: ero laureanda in medicina, a Milano. […] Fino a tre mesi fa godevo ancora della vista: ora è notte. Però nel mio Calvario non sono disperata. Io so, che in fondo alla via, Gesù mi aspetta. Prima nella poltrona, ora nel letto che è la mia dimora, ho trovato una sapienza più grande di quella degli uomini. Ho trovato che Dio esiste ed è Amore, Fedeltà, Gioia, Fortezza, fino alla consumazione dei secoli”.
“Fra poco io non sarò più che un nome – continua –, ma il mio spirito vivrà, qui fra i miei, fra chi soffre, e non avrò neppure io sofferto invano. E tu Natalino, non sentirti solo, mai. Procedi serenamente lungo il cammino del tempo, e riceverai luce, verità, la strada sulla quale esiste veramente la Giustizia, che non è quella degli uomini, ma la giustizia che Dio solo può dare”.
E infine: “Ciao, Natale, la vita è breve; passa velocemente. Tutto è una brevissima passerella, pericolosa per chi vuole sfrenatamente godere, ma sicura per chi coopera con Lui, per giungere in Patria”.