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Il mondo arabo a occhi aperti

Primavera Araba – it

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padre Giacomo Costa - Aggiornamenti Sociali - pubblicato il 15/01/14

Le rivoluzioni degli ultimi anni nel mondo arabo costringono a rivedere la politica internazionale con nuovi occhi
È il 17 dicembre 2010: Mohamed (Tarek) Bouazizi, venditore ambulante tunisino, si dà fuoco per protestare contro l’ennesima confisca del suo banco di frutta da parte della polizia, morendo due settimane più tardi: un fatto di cronaca locale che scatena conseguenze del tutto impreviste. Non si può dimenticare lo stupore non solo dell’opinione pubblica occidentale, ma anche degli esperti di politica internazionale, di fronte alle manifestazioni e alle proteste che hanno acceso Paesi a noi vicini, e altri che forse fatichiamo a localizzare su un planisfero: Tunisia, Egitto, Libia, e poi Bahrein, Iran, Mauritania, Gibuti, Siria, Giordania, Oman. Scriveva a caldo la giornalista Marta Dassù (
La Stampa, 31 gennaio 2011): «La crisi dell’Egitto è, per i politologi, l’equivalente di ciò che il crollo di Lehman Brothers è stato per gli economisti». Un paragone non solo ad effetto ma anche pertinente, perché aiuta a percepire immediatamente che le rivolte del mondo arabo non sono solo fenomeni locali, ma anche «pezzi» di un puzzle globale.

Oggi per il mondo arabo come allora per Lehman Brothers e ancor prima con la caduta del Muro di Berlino e dei regimi dell’Europa orientale, vediamo venir meno convinzioni ritenute intoccabili e indiscutibili su come procede il mondo. Ben prima dell’autunno 2008, alcuni (pochi) analisti avevano segnalato i rischi di un uso sconsiderato dei derivati finanziari, eppure si dava per scontato che la crescita fosse destinata a proseguire in eterno. Allo stesso modo, era noto che nel mondo arabo non mancassero i problemi: dittatori in carica da decenni sostenuti da sistemi repressivi di polizia, aumento del costo della vita e in particolare dei prodotti alimentari, disoccupazione a tassi altissimi tra i giovani ma non solo. Eppure si continuava a pensare che sarebbero rimasti al potere per sempre. Quando la realtà smentisce le nostre convinzioni, siamo tenuti a chiederci che cosa ci ha impedito di vedere e di capire.

1. Reazioni a caldo
Più forte della preoccupazione di capire che cosa succede veramente, lo sguardo sugli eventi è stato prevalentemente guidato con timore dall’analisi dei suoi effetti sul nostro Paese. Siamo invece invitati a mettere in discussione i nostri modi immediati di reagire – in parte inevitabili e comprensibili – che rapportano ingenuamente e ciecamente tutto a noi e costituiscono prospettive che oscurano più che illuminare: le paure, il calcolo degli interessi, ma anche le categorie di comprensione occidentali che nascono dalla cristallizzazione della nostre precedenti esperienze di crisi sociali quali il ’68, la caduta del Muro di Berlino, il crollo delle Torri gemelle a New York.

La paura è senz’altro quella dell’immigrazione, non più «controllata» dai «gendarmi» a cui l’avevamo affidata: suggestionati anche all’enfasi mediatica, rischiamo di limitarci a leggere gli eventi in corso sulla base del numero dei barconi in viaggio o pronti a lasciare le coste libiche. Secondo i dati forniti dal ministro dell’Interno Maroni il 3 marzo scorso, ci sono tra le 100 e le 200mila persone in fuga dalla guerra e dall’instabilità dell’Africa settentrionale, ma gli spostamenti più importanti, anche se quasi ignorati dai nostri media, non sono certo quelli verso l’Italia o l’Europa. Senza voler minimizzare irresponsabilmente i problemi, ci sembra che mettere in primo piano (o in prima pagina) la preoccupazione di assistere allo sbarco nel nostro Paese di «orde» di rifugiati, profughi o immigrati testimoni solo la ristrettezza di vedute di chi se ne fa condizionare. Le conseguenze delle rivolte del mondo arabo saranno poi ben altre e più profonde.

Gli interessi in pericolo sono prevalentemente di tipo economico, evidenti in misura esponenziale nel caso della Libia: «Prezzi delle materie prime in salita, rialzo del costo del denaro e crisi nordafricana – dice Cesare Fumagalli, segretario generale della Confartigianato – potrebbero mettere a repentaglio le prospettive di rilancio del nostro sistema produttivo» (PARENTI C., «L’effetto Libia limita la ripresa», in
Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2011). Nel giro di pochissimi giorni la crisi libica ha dato il via a un aumento incontrollato delle quotazioni del petrolio, anche se dal Paese nordafricano proviene non più del 2% della produzione mondiale. Il rincaro del greggio fa intravedere il pericolo di un’ondata inflazionistica e di un conseguente aumento dei tassi d’interesse, che si somma ai danni derivanti dall’interruzione del commercio tra Italia e Libia, che nei primi 9 mesi del 2010 aveva assorbito tra 2 e 3 miliardi di esportazioni italiane.

Affrontare seriamente i fenomeni rivoluzionari in corso ci aiuta a renderci conto di come siamo portati a imporre schemi di lettura legati all’esperienza dei fenomeni di cambiamento sociale nei nostri Paesi. Lo fa notare Paul Amar, professore di Studi globali e internazionali all’Università di California (cfr «Why Mubarak is Out», in
www.jadaliyya.com), che mostra come le letture occidentali della rivoluzione egiziana – la più compiuta e significativa tra quelle in corso, peraltro differenti tra loro – siano spesso fatte sulla base di una logica binaria, «buoni contro cattivi», con un portato di entusiasmi facili e poco realistici, ma anche di disillusioni e paure e con il risultato di una visione stereotipata del mondo arabo.

   a) Popolo contro dittatore
Questa prospettiva porta all’ingenuità liberale e al misconoscimento del ruolo attivo dei militari e delle élite politiche ed economiche nelle sommosse. Dal nostro punto di vista gioca un ruolo la delusione del 1989: alla caduta del Muro festeggiammo l’avvento di un mondo più giusto e invece ci siamo ritrovati dentro uno più largo, nel quale gli occidentali hanno perso peso. In noi si è fatto strada il pensiero tipico dei perdenti: d’ora in poi, qualsiasi cambiamento altrui peggiorerà la nostra vita. In Egitto, per una comprensione più completa, può essere utile identificare tra le parti che hanno animato la sommossa le forze armate e la polizia, con i loro conflitti interni. Caduto Mubarak, il gruppo chiamato a garantire la stabilità del Paese, pur riflettendo un cambiamento molto significativo nella direzione politica, non è altro che un «rimescolamento» del Governo. Non si potrà parlare di transizione democratica finché la vasta coalizione dei movimenti sociali locali e gli egiziani internazionalisti non irromperanno in questo circolo ristretto, riuscendo a influire nelle decisioni sulle modalità e l’agenda della transizione.

   b) Gioventù frustrata contro vecchia guardia
Queste lenti offrono uno sguardo molto suggestivo sulla protesta, che riporta l’osservatore italiano agli eventi del ’68, ma rischia di romanzarla come impeto giovanilistico, estemporaneo e tendenzialmente fallimentare. Si tratta invece di qualcosa di ben più radicato. È cruciale ricordare infatti che questa rivolta non ha avuto origine dai Fratelli musulmani, movimento politico ispirato all’islam e contrario alla secolarizzazione, o dagli imprenditori nazionalisti, ma è cominciata gradualmente con la convergenza di due forze parallele: il movimento per i diritti dei lavoratori e quello contro la brutalità e le torture della polizia, che hanno mobilitato l’intero Paese negli ultimi tre anni, entrambi caratterizzati dalla partecipazione della massa e dalla presenza di donne di tutte le età e di giovani. In Europa è comune delegittimare i movimenti sociali sottolineando che vi partecipano solo i giovani. Al Cairo, invece, i giovani, che appartengono ad associazioni informali legate al territorio e a movimenti religiosi che operano in difesa dei quartieri, delle famiglie, delle donne e dei bambini, hanno la legittimità indispensabile per guidare le proteste e chiamare alla ribellione. «In questi giorni non c’è differenza tra islamisti, laici o "figli del popolo"; […] appaiono tutti uniti dalla stessa rabbia, sono tutti ragazzi e ragazze che stanno rompendo una delle basi tradizionali delle società arabe, il patriarcato e la differenza di genere» (SÁNCHEZ GARCÍA J., «La rivoluzione egiziana. Giovani, politica e società», in
http://periferiesurbanes.org).

   c) Laici contro islamici
Questo modello riporta alle paure islamofobiche riguardo il contenimento dei fondamentalisti aumentate dopo l’11 settembre 2001. In Egitto non ha fatto problema che sulla piazza della liberazione ci fossero dei «barbuti» appartenenti a movimenti islamici. Ma essi non hanno fatto blocco fra loro, mescolandosi invece alla folla. Questa unità è una novità, dato che fino a pochi anni fa l’accesso alla politica della dissidenza era monopolizzato dai gruppi islamici.

Il movimento dei Fratelli musulmani sembra presentare un volto diverso da quello temuto, dichiarando di rinunciare alla violenza; certo dovrà dimostrarlo coi fatti. Ci sono però anche altri movimenti ugualmente forti che vogliono una società più neutrale e più libera anche riguardo alle tradizioni religiose. Come dimostrano le immagini scattate al Cairo in Piazza Tahrir, cuore e simbolo della rivolta, non apparse sui nostri quotidiani (cfr ad esempio
www.asianews.it/index.php?l=it&dos=144&size=A), i ragazzi, i partiti laici e diversi intellettuali si sono impegnati per ricomporre i dissidi tra cristiani e musulmani, riesplosi dopo il massacro alla cattedrale di Alessandria, episodio ancora oscuro in cui gli integralisti potrebbero esser stati manovrati da apparati della sicurezza. Su Facebook è partita un’iniziativa contro il settarismo e gli scontri confessionali, lanciata da Amer Khaled, uno dei più influenti predicatori televisivi musulmani. È nato anche un simbolo per rappresentare l’unione tra cristiani e musulmani: una croce copta all’interno della mezzaluna. Tutto questo senza nascondere le contraddizioni manifestate dalle violenze anticristiane che continuano in molti Paesi: non si può pensare ingenuamente che incomprensioni e inimicizie secolari finiscano in pochi giorni. E che non ci siano forze che continuano ad agitarle.

2. Scardinare le radici
Se vogliamo scavare ancora più in profondità, ci sembra che due siano i presupposti che il nostro Paese e l’Occidente in generale hanno assunto come scontati nei confronti dei Paesi oggi in subbuglio e soprattutto dei loro dittatori, e che ci rendono ciechi ai fermenti di novità.

Il primo «dogma» è certamente la logica del primato (assoluto) degli «interessi nazionali», teorizzata con lucidità dall’editorialista del Corriere della Sera Angelo Panebianco: «L’interesse nazionale resta la principale bussola per coloro che devono decidere le politiche estere». Per una ragione precisa: il mantenimento del potere richiede ai governanti democratici di ispirare le politiche estere alla tutela dell’«interesse del proprio Paese, così come esso viene definito dai gruppi interni, politici, sociali ed economici, che contano» («Tre scenari per una crisi», in
Corriere della Sera, 7 marzo 2011). L’importanza dei valori non è misconosciuta, ma essi restano subordinati all’interesse e alla Realpolitik: «In politica si dà spesso uno spiacevole divario fra ciò che "è giusto" e ciò che "è utile", fra ciò che pensiamo sarebbe giusto fare alla luce dei principi che professiamo e ciò che sappiamo essere utile per i nostri interessi. In politica internazionale, poi, quel divario è la regola» (ID., «Il giusto e l’utile», ivi, 27 febbraio 2011).

L’esempio più eclatante per l’Italia è quello delle relazioni con la Libia. Non diversamente da quanto hanno fatto la Francia con la Tunisia e gli USA con l’Egitto, per oltre quarant’anni i politici italiani nei rapporti con la Libia hanno costantemente collocato gli affari al di sopra dei principi. Mubarak e Gheddafi facevano comodo per i servizi segreti e le detenzioni illegali, gli egiziani tornavano utili per la pace fredda con Israele e i libici per il petrolio e il gas. Con l’aggravante, nella nostra storia più recente, di aver perseguito l’«interesse nazionale» assecondando le plateali stranezze del leader libico. In realtà il nostro «interesse nazionale» sembra piuttosto essere minacciato da troppi anni di condiscendenza – spesso supina – nei confronti di un regime dittatoriale e oppressivo.

Il secondo presupposto da scardinare è l’immagine che abbiamo acriticamente imposto a quei Paesi: società arretrate, indifferenziate al loro interno, dominate dal fondamentalismo islamico e di conseguenza invincibilmente refrattarie ai valori della libertà e della democrazia. Ci si poteva così sentire giustificati nello scendere a patti con tiranni corrotti e dittature repressive, che comunque garantivano una conveniente stabilità. Quelle che emergono oggi dalle cronache sono invece società abitate da componenti diverse, con sensibilità variegate e «moderne», un vero e proprio mosaico che smentisce le «profezie» di Oriana Fallaci, ancora oggi riprese e valorizzate, quando si chiedeva che cosa ci fosse «di civile in una civiltà che non conosce neanche il significato della parola libertà» (FALLACI O., «Il nemico che trattiamo da amico», in
Corriere della Sera, 15 settembre 2006). Altrettanto smentita appare la teoria del politologo statunitense Samuel Huntington, espressa nel celebre saggio Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale del 1996, che voleva la cultura islamica (chiamata «araba») totalmente incompatibile con ideali liberali, pluralisti e democratici. Se dopo l’11 settembre 2001 sembrava essere questa la neovulgata interpretativa occidentale, oggi ci rendiamo conto che il desiderio di libertà, di dignità e di autodeterminazione vive in culture e religioni diverse e chiede attuazione secondo traiettorie differenti da quelle seguite nei nostri Paesi e coerentemente autonome.

Sempre a partire dall’11 settembre, per presentare l’islam si sono confezionati prodotti informativi chiedendosi non quali siano le cause dei fenomeni che trattano, ma quali siano i luoghi comuni che servono agli spettatori per rafforzare la loro visione del mondo. D’ora in poi dovranno risultare inutilizzabili quelle rappresentazioni che riducono tutti i conflitti del mondo arabo alla violenza, al fanatismo religioso, all’irrazionalità, alla chiusura, alla subordinazione e al despotismo.

Al contrario, stiamo assistendo a una richiesta di diritti e di libertà che arriva dall’interno, da una nuova generazione di arabi che vedono come le loro società siano state depredate dai propri governanti. Per quanto le istituzioni della democrazia siano state negate per decenni, l’aspirazione alla libertà rimane universale e intatta. Questo è ciò che la nostra prudente politica e le analisi accademiche non sono riuscite a capire. Nonostante tutte le ambiguità e gli eventuali fallimenti di queste rivoluzioni, il bisogno di cambiamento nella regione non sparirà nel nulla.

3. Allargare lo sguardo e l’azione
Renderci conto di come risposte emotive e presupposti acritici ci abbiano impedito di vedere e di prepararci a quanto stava accadendo, ci obbliga a rivedere l’ordine di priorità fra valori, interessi e prospettive antropologiche di fondo.

La politica estera di ogni Stato è condizionata da una molteplicità di fattori: la collocazione geopolitica, le tecnologie a disposizione, ma, soprattutto, la posizione all’interno del sistema internazionale. Non basta auspicare un ripensamento della nostra politica estera verso una maggiore attenzione alle aspirazioni di libertà della persona umana e ai suoi diritti: occorre adoperarsi concretamente affinché le relazioni internazionali assumano un nuovo volto. Inutile chiedersi quale sviluppo, per noi e per i nostri vicini, è veramente utile, oltre che giusto, senza chiamare in causa l’Unione Europea, senza lavorare per costruire una quanto mai urgente politica estera comunitaria, così come un nuovo ordine mondiale fondato su una onu rinnovata nella sua capacità di governance globale.

Senza relazioni internazionali nuove, a tutti i livelli, sarà arduo candidarsi a essere interlocutori credibili dei nuovi Governi dei Paesi arabi, che ci auguriamo democratici, ed elaborare strategie per stare in contatto con i movimenti della storia. Solo un ripensamento responsabile del nostro modo di porci nel sistema internazionale potrà condurci a comprendere che scegliere di non investire in diritti e politiche di sviluppo non è senza conseguenze. Allo stesso tempo, l’apparizione in primo piano dei popoli arabi aiuta a renderci conto che essi non hanno bisogno della tutela occidentale per decidere della propria vita: hanno già dimostrato la loro maturità, la loro diversità, hanno alzato la voce e hanno detto «basta».

Migliori strumenti di lettura della realtà internazionale ci aiuterebbero a scoprire che gli aneliti di libertà a cui stiamo assistendo presentano analogie con quelli che agitano altre parti del mondo oggi, come le decine di migliaia di persone che manifestano contro i tagli agli stipendi e le limitazioni ai diritti sindacali dei dipendenti pubblici nello Stato americano del Wisconsin: non è un caso che abbiano ricevuto solidarietà proprio dai lavoratori dell’Egitto. Ciò ci permetterebbe di essere meno impreparati nel futuro: perché dovremmo pensare che questo movimento si limiterà al mondo arabo? Non potrebbe raggiungere anche la Cina? O, magari, la nostra stanca democrazia italiana, che indubbiamente sarebbe rivitalizzata da un serio dibattito pubblico su queste questioni?

La crisi finanziaria ed economica scoppiata nel 2008 ha catalizzato una ripresa del confronto sul senso delle pratiche economiche e sui valori che devono guidarle, sui confini e le regole del mercato. Le rivoluzioni in corso sull’altra sponda del Mediterraneo potrebbero, come auspichiamo, ottenere un analogo risultato per quanto riguarda la politica estera e il nostro modo – come italiani, europei, occidentali, sviluppati e democratici – di stare al mondo.

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