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Kim ki-chang, un pittore cristiano “alla coreana”

Kim ki-chang, un pittore cristiano “alla coreana”

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Aleteia - pubblicato il 09/01/14

Per la prima volta al Museo nazionale di Seoul, l'artista che ha “tradotto” visivamente le scene evangeliche per la gente

Per festeggiare il centenario della nascita di Kim Ki-chang, artista cristiano morto nel 2001, il ministero della Cultura coreano ha deciso di dedicargli una retrospettiva ospitata al Museo nazionale di Seoul dal titolo “Cristo e l’agnello sordo”. Si tratta di una prima assoluta: il pittore è infatti conosciuto e stimato nel Paese, ma il carattere religioso delle sue opere lo aveva tenuto lontano dagli edifici statali.

La vita di Kim Ki-chang è stata segnata per lungo tempo dalla solitudine e dall’emarginazione a causa della sua sordità causata da una febbre tifoidea contratta all’età di otto anni. Ma l’arte e la fede cristiana, eredità di una famiglia devotissima lo aiuteranno a esprimersi e affermarsi in una delle società meno aperte nei confronti dei disabili.

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Secondo il direttore del Museo nazionale di Seoul, Yi Joo-heon, riferisce la rivista “A Sua Immagine” (28 dicembre 2013), il pittore “ha voluto leggere la vita di Cristo senza la lente occidentale, anzi aggiungendo elementi della tradizione coreana per farne capire l’universalità”.

Kim inizia a dipingere le scene principali della vita di Cristo negli anni Cinquanta, quando nella penisola infuria la Guerra di Corea che durerà dal 1950 al 1953 e causerà la morte di quasi tre milioni di persone, di cui la metà civili. Terribile anche la persecuzione contro la Chiesa in quella che diventerà la Corea del Nord, a seguito dell’armistizio del 1953. Vengono, infatti, massacrati migliaia di fedeli. Vescovi, sacerdoti e religiose condannati alla fucilazione o al lager. Le chiese distrutte o profanate. Kim parlerà nei suoi diari di “una nuova Passione, un nuovo Calvario per tutti noi”.

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Il pittore comincia allora a cerca di spiegare ai coreani il ruolo sociale, storico e religioso di Cristo. Per questo, continua il dottor Yi Joo-heon, “rappresentare Cristo vestito con i paramenti degli studiosi del periodo imperiale Joseon, che va dal 1392 al 1910, è stato uno dei modi usati per dargli l’immagine del leader, riconoscibile da tutti. Allo stesso modo, i soldati romani che lo arrestano per la Passione hanno le corazze dei servi dell’impero”.

L’evangelizzazione in Corea è iniziata grazie ad alcuni filosofi e diplomatici che si erano convertiti al cristianesimo a Pechino. Tornati in patria, hanno propagato al fede e battezzato i primi catecumeni.

Dal 1779 al 1836, quando giunsero i missionari francesi, i cristiani si diffusero arrivando fino alla famiglia imperiale: proprio questa penetrazione scatenò le persecuzioni, ma l’abitudine a collaborare con la Chiesa è rimasta. Nelle persecuzioni perirono più di 10 mila martiri: di questi, 103 furono beatificati in due gruppi distinti nel 1925 e nel 1968 e poi canonizzati tutti insieme il 6 maggio 1984 a Seoul da papa Giovanni Paolo II. Ora la Chiesa coreana attende la canonizzazione di Paolo Yun Ji-chung e dei suoi 123 compagni morti in odio alla fede durante la persecuzione Byeongin (prima e seconda metà dell’800) e proclamati Servi di Dio sempre da Giovanni Paolo II nel 2003.

Nell’ultimo mezzo secolo la Chiesa della Corea del Sud, definita dal missionario padre Piero Gheddo la “vera tigre dell’Asia”, ha sperimentato una forte crescita legata anche all’aumento demografico della popolazione. Dal 1960 al 2010 i cristiani dal 2 sono passati al 30%. I cattolici negli ultimi dieci anni sono passati da tre a cinque milioni di fedeli. E solo a Seoul sono il 14%. Ogni parrocchia ha dai 200 ai 400 battesimi di convertiti dal buddhismo all’anno. Oggi in Corea chi si converte sa che deve impegnarsi in uno dei gruppi, associazioni e movimenti parrocchiali esistenti. Il “cattolico passivo”, come lo ha definito papa Francesco in una omelia a Santa Marta, non è ammesso.

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