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I cattolici spronano Letta: sulle carceri bisognava fare di più

I cattolici spronano Letta: sulle carceri bisognava fare di più

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Gelsomino Del Guercio - Aleteia Team - pubblicato il 18/12/13

Giuristi ed esperti concordano: nel decreto più lacune che punti positivi

Il decreto carceri licenziato dal Consiglio dei Ministri prevede varie misure per cercare di tamponare l’emergenza del sovraffollamento, che ha portato alla condanna definitiva dell’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e all’obbligo di provvedere entro maggio 2014 a questo dramma. Il decreto di ieri introduce varie misure, e nessuna è drastica né risolutiva e mira a far uscire dal carcere, sempre sotto stretto controllo per la sicurezza collettiva, 1.700 persone detenute che possiedono determinati requisiti giuridici. Si conta di arrivare fino a tremila persone in due anni (Tempi.it 18 dicembre).

Aleteia ha ascoltato alcuni tra i maggiori giuristi ed esperti del mondo cattolico e tutti concordano nel dire che il provvedimento non risolve l'emergenza carceri, pur contenendo al suo interno delle misure «positive». «Il governo doveva osare decisamente di più», questo è il senso del messaggio diretto a Palazzo Chigi.

Il professore Mauro Ronco, docente di diritto penale all’Università degli studi di Padova e consigliere dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani, evidenzia subito che «il decreto non risolve né strutturalmente, né temporaneamente i problemi sul tappeto». Ma ci sono anche misure «importanti» di cui tener conto.

«La prima – spiega Ronco – riguarda lo "sconto" della pena. Oggi per ogni sei mesi di pena trascorsi in carcere, il detenuto che fa buona condotta riceve 45 giorni di “sconto” sulla detenzione rimanente. Il decreto ha innalzato lo sconto a 75 giorni: si tratta di una norma che è destinata a tutte le persone in carcere, ma non è automatica, dato che è il magistrato di sorveglianza a valutare il comportamento del detenuto». L'altro aspetto positivo riguarda i termini per l'affidamento ai servizi sociali. «Attualmente il condannato che aveva un residuo di pena di 3 anni in carcere, poteva fare richiesta di essere affidato ai servizi sociali. Ora il residuo pena con cui si può presentare domanda sale a 4 anni».

Nel caso dell’innalzamento del tetto di pena inflitta per l’affidamento in prova, rileva Ronco, «ci sono però dei problemi strutturali. Alzare il "tetto" può portare a conseguenze negative. Per determinate condanne, rispetto alla loro gravità, esse appaiono come fossero eluse. In quei casi il provvedimento sembra che sia poco punitivo». Un altro limite, prosegue il giurista, «è che il tribunale di sorveglianza, come sta già capitando da molti anni, non applica questa disposizione che è nelle sue possibilità, proprio perché ritiene che in quel modo la pena sia elusiva».  

Infatti l'affidamento ai servizi sociali «si colloca anche in una condizione di profonda incertezza». «Quali misure prescrittive  – si domanda il docente – devono essere fissate per mandare il detenuto in prova ai servizi? Il legislatore continua a non esprimersi con chiarezza in tal senso. Si, ci sono delle misure blande, delle condizioni che il detenuto deve rispettare, ma quale lavoro svolge il detenuto nell'interesse della collettività? L'affidamento è stato pensato solo per pene detentive brevi, e senza dubbio va riformato».

In sostanza, per risolvere in maniera più consistente il problema del sovraffollamento, il governo poteva seguire una strategia diversa. «Secondo me – afferma Ronco – c'erano tutte le condizioni per fare un indultino di un anno. In chiave pacificatoria, quella si che sarebbe stata una buona ed efficace misura».

Infine, un ultimo "neo" del decreto è l'assenza di una norma volta a modificare l'attuale legislazione sulla custodia cautelare. «che di fatto sovverte il criterio fondamentale della giustizia penale, secondo cui la restrizione della libertà, determinando una grave sofferenza della persona, è giustificabile soltanto, a meno di esigenze cautelari particolarmente forti, in forza a una sentenza definitiva di condanna».

L'avvocato Giancarlo Cerrelli, vice presidente dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani, è ancora più radicale nella sua analisi del decreto carceri. «E' un palliativo per non centrare le vere questioni che risolverebbero l'emergenza». Le priorità evase dal provvedimento di Palazzo Chigi, secondo Cerrelli, restano tre.

«Il primo punto è un uso eccessivo della custodia cautelare. Sarebbe il caso di disciplinarlo e sanzionare i magistrati che fanno un uso indiscriminato di tale provvedimento, sopratutto nei casi in cui, alla fine, c'è l'assoluzione del detenuto». Un altro problema non affrontato è relativo «ad una consistente presenza di detenuti stranieri nelle nostre carceri. Ci sono già disposizioni che potrebbero far espiare condanne nelle nazioni di origine di questi immigrati». In terzo luogo resta in piedi la questione della ridotta disponibilità di istituti di pena. «Ci sono molti padiglioni già edificati ma non aperti perché probabilmente mancano gli agenti penitenziari che andrebbero assunti per lavorare al loro interno».

Secondo il giurista cattolico «per certi versi il decreto è addirittura dannoso. Bisogna fare attenzione al messaggio che passa nell'opinione pubblica. Lo sconto di reclusione per ogni anno di pena fa sembrare che la condanna sia diventata sensibilmente diversa e più lieta anche se magari è stato commesso un reato grave. Io resto del parere che la pena vada scontata mirando altresì alla rieducazione del detenuto».

Anche l'innalzamento della soglia per l'affido del detenuto ai servizi sociali «va sempre nella direzione di far diminuire la pena edittale a prescindere dalla gravità del reato. Non penso che misure del genere diano respiro alle strutture penitenziarie per molto tempo. Accadrà come con l'indulto del 2006: dopo qualche tempo ci siamo ritrovati con le carceri piene».

Anche Alessio Scandura, Coordinatore dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone, sostiene che il sovraffollamento delle carceri è ben lontano dalla risoluzione. «Prima di tutto bisogna partire dai numeri per dare una sterzata bisogna togliere dalle celle 20-25 mila detenuti. Cifre lontanissime dal provvedimento del governo. L'obiettivo poteva essere raggiunto con un'amnistia, una depenalizzazione dei reati contro il patrimonio, o in ogni caso con un provvedimento straordinario».

Il coordinatore dell'Osservatorio di Antigone sottolinea che «siamo in emergenza nazionale dal 2010: da allora si è passati da 67 a 64mila detenuti nelle carceri italiane. Un calo irrisorio. Le misure adottate dai governi sino ad oggi non sono state efficaci. La politica deve prenderne atto».

Il provvedimento del governo Letta va nella direzione «giusta» ma è «chiaramente insufficiente». Introduce questioni sollevate dal mondo delle associazioni, conclude Scandura, «come la limitazione per la custodia cautelare relativa ai reati connessi all'uso e allo spaccio di stupefacenti. Bene anche l'introduzione del Garante per i diritti dei detenuti perché fino ad ora non c'erano mai stati meccanismi efficaci a cui il detenuto poteva ricorrere in caso di abusi. Insomma, si muovono dei passi, ma bisogna fare molto di più».

Giovanni Ramonda, responsabile della Comunità "Papa Giovanni XXIII" che da anni si batte per il miglioramento del sistema delle carceri in Italia, solleva altre due mancanze del decreto, affidandogli un taglio più "sociale". «Con il decreto ci sono stati piccoli passi in avanti per evitare la carcerazione per piccoli reati legati alla tossicodipendenza ma io dico che bisogna andare oltre». La Comunità "Papa Giovanni XXIII" proporrà al presidente del Consiglio e al ministro della Giustizia di adottare il modello scandinavo. «In paesi come Svezia, Norvegia, Finlandia, tutti i soggetti con alle spalle reati di tossicodipendenza non entrano in carcere ma scontano la pena in una comunità educativa. Bisogna tener conto – precisa Ramonda – che in Italia il 25% dei detenuti è in carcere a causa di reati legati alla tossicodipendenza. Ciò significa che se passasse la nostra proposta, si libererebbe un posto su quattro sul totale di quelli a disposizione nelle carceri italiane».

Inoltre il decreto del governo non incide sui percorsi di rieducazione all'interno dei penitenziari. «Il cammino educativo, di ricrescita etica e culturale della persona si concretizza in rarissimi casi».

Infine il presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII rivolge un appello affinché «istituzioni, direzioni delle carceri, corpi di polizia, associazioni di volontariato lavorino tutti nella stessa direzione per una sfida che ha lo sguardo rivolto al bene comune».

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