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Fatta l’Europa, come facciamo gli europei?

Portrait of a child with a painted EU flag, closeup – it

Alexander Mak

Aggiornamenti Sociali - pubblicato il 03/12/13

Come partecipare alla costruzione di un’Europa sempre più democratica e aperta al mondo, unita nella sua diversità culturale e da questa arricchita?

La questione non ha suscitato scalpore mediatico, tanto che molti non se ne saranno nemmeno accorti, ma sta giungendo alla conclusione l’Anno europeo dei cittadini, voluto dall’UE per celebrare il ventesimo anniversario del Trattato di Maastricht (1993). Più noto per i “famigerati” parametri, esso istituì anche la cittadinanza dell’Unione, che conferisce agli europei vari diritti, successivamente rinforzati dai Trattati di Amsterdam (1999) e di Lisbona (2009).

Non è questa la sede per tentare un bilancio delle iniziative intraprese e verificare se abbiano raggiunto gli obiettivi che si proponevano. Al di là della celebrazione della ricorrenza, l’occasione permette di tornare ad affrontare alcune domande fondamentali: come partecipare alla costruzione di un’Europa sempre più democratica e aperta al mondo, unita nella sua diversità culturale e da questa arricchita? Come promuovere tra i cittadini un senso di appartenenza all’Unione europea e migliorare la loro comprensione reciproca, rispettando nel contempo la diversità culturale e linguistica e contribuendo al dialogo interculturale? Come sviluppare un’identità europea fondata su valori, storia e cultura comuni? Come semplificare i processi decisionali europei in modo che siano più trasparenti e comprensibili? Come rinforzare la legittimità democratica delle decisioni che sembrano per il momento solo il risultato di negoziati diplomatici tra Governi? E, in fin dei conti, che cosa significa essere cittadino europeo?

Questi interrogativi manterranno la loro attualità e validità anche una volta che questo anno sarà archiviato. Tra il 22 e il 25 maggio 2014 si terranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo: ci aspetta quindi una campagna elettorale che auspichiamo possa confrontarsi davvero con quelle domande, senza rimanere prigioniera degli abituali stereotipi sull’UE – a favore o contro, poco importa –, o peggio essere oscurata da questioni di politica nazionale che solo all’apparenza potrebbero essere più importanti e urgenti.

L’Europa – anzi l’Unione europea – oggi pare fragile ed è oggetto di critiche; d’altra parte resta un progetto attraente, come dimostra il fatto che il 1° luglio 2013 si è aggiunto il ventottesimo membro, la Croazia, mentre sono in corso i negoziati per l’adesione di altri 5 candidati. Non basta però continuare ad affermare le virtù e la bellezza del progetto europeo, come abbiamo fatto a più riprese anche su queste pagine (cfr ad esempio «Miseria e nobiltà: il Nobel che svela l’Europa», in Aggiornamenti Sociali, 11 [2012] 733-740): affrontare la questione della cittadinanza è una porta d’ingresso fondamentale perché l’europeismo convinto di (alcuni) intellettuali e politici – e magari di qualche studente Erasmus – raggiunga la maggior parte dei concittadini nella loro vita quotidiana e dimostri la sua reale consistenza. Proveremo così a mettere a fuoco la sfida che la cittadinanza europea rappresenta, per poi esaminare il discorso politico (o la retorica) con cui i temi europei vengono normalmente trattati e terminare con alcune piste lungo le quali tentare di avanzare.

La sfida di una cittadinanza multilivello

Ragionarne a livello europeo richiede di mettere nuovamente a fuoco il concetto di cittadinanza, anzi, come vedremo, di darne una nuova interpretazione dinamica. Radicato nella tradizione politica grecoromana, tale concetto “riappare” nell’epoca moderna con la fine dell’assolutismo e identifica i membri di quel soggetto collettivo, il popolo, a cui, in un dato territorio, appartiene la sovranità, una volta che essa è stata tolta al monarca. Nelle democrazie occidentali, dunque, il concetto di cittadinanza rinvia da un lato a quello di sovranità, con un necessario riferimento allo Stato come ambito innanzitutto territoriale in cui questa si esercita, e dall’altro a quello di popolo.

Nella progressiva elaborazione, ne emergono una dimensione giuridica, quella dei diritti e doveri propria dei cittadini; una dimensione politica, con la loro partecipazione più o meno diretta al governo dello Stato; una dimensione sociale basata sul senso di appartenenza identitaria a una comunità legata a un territorio.

Da questo punto di vista è immediatamente chiaro come parlare di cittadinanza europea costituisca un ossimoro, o meglio richieda una reinterpretazione analogica del concetto. Da un lato, infatti, manca all’UE la pienezza di una sovranità dello stesso tipo di quella che resta in capo agli Stati, dall’altro non è possibile affermare che esista un popolo europeo nello stesso senso in cui lo si afferma per i singoli Stati membri. Non a caso si parla piuttosto di “Europa dei popoli”, a sottolinearne l’irriducibile pluralismo.
Anche nei Trattati europei emerge la consapevolezza che la cittadinanza europea non può essere compresa semplicemente sulla falsariga di quella nazionale, tanto che si aggiunge a essa senza sostituirla. Afferma infatti il Trattato di Maastricht: «È cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro»; il Trattato di Amsterdam, cercando di non irritare le suscettibilità nazionali, precisa che «La cittadinanza dell’Unione costituisce un complemento della cittadinanza nazionale e non sostituisce quest’ultima» (art. 9 della Versione consolidata del trattato sull’Unione europea, attualmente in vigore); né l’UE gode del potere di concedere a chicchessia la cittadinanza europea, in quanto essa richiede come condizione necessaria e sufficiente di essere già in possesso della nazionalità di uno Stato membro. Basta questo a far intuire come la cittadinanza europea rappresenti un unicum proprio nel suo fare riferimento a un quadro sovranazionale.

Nonostante questo, un primo e importante filone del suo sviluppo si è mosso sulla scia della cittadinanza in senso classico. Così il fatto di essere cittadino europeo conferisce specifici diritti: libertà di circolazione, soggiorno e lavoro all’interno del territorio dell’Unione, diritto di ricorrere alle istituzioni europee (ad esempio petizione al Parlamento europeo, ricorso alla Corte di Giustizia e Mediatore europeo). A livello simbolico risulta particolarmente significativo il diritto di ottenere tutela da parte delle rappresentanze diplomatiche di qualunque Stato UE nei Paesi dove non vi siano quelle del proprio: visto che nel diritto internazionale la tutela consolare è prerogativa degli Stati, siamo in presenza di una prassi embrionale di condivisione della sovranità. Vi sono poi i diritti sociali ed economici affermati dalla normativa comunitaria (ad esempio in materia di salute, sicurezza, tutela del consumatore, ecc.) e soprattutto il patrimonio di diritti e libertà che costituiscono la tradizione delle democrazie europee, solennemente riaffermato e aggiornato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, approvata nel 2000 dal Consiglio europeo di Nizza.

Dal punto di vista della partecipazione politica, un primo passaggio fondamentale si è avuto nel 1979, con l’elezione del Parlamento europeo a suffragio universale. Inoltre il Trattato di Maastricht stabilisce il diritto dei cittadini europei di votare alle elezioni amministrative ed europee nel Paese in cui risiedono (anche se diverso da quello di cui hanno la nazionalità) e, a determinate condizioni, anche quello di candidarsi alle stesse consultazioni. Questo modifica in maniera significativa il tradizionale legame tra diritto di voto (attivo e passivo) e nazionalità. Così in Italia i cittadini degli altri Paesi UE sono gli unici stranieri che possono partecipare come elettori e come candidati alle elezioni amministrative.

Più faticoso fino ad ora è stato invece il percorso di costruzione di un demos europeo, peraltro ben più complesso da articolare con il livello nazionale. L’adozione di elementi simbolici classici dell’identità nazionale, come la bandiera europea (con l’obbligo di esporla insieme a quella nazionale), l’inno europeo (l’«Inno alla gioia» contenuto nella Nona sinfonia di Ludwig van Beethoven) o l’uniformità dei passaporti, sui quali compare la dizione «Unione Europea» oltre al nome del Paese che lo emette, non basta certo allo scopo.

Per quanto si tratti di passaggi di cui è giusto riconoscere l’importanza, continuare a ragionare di cittadinanza europea in questi termini rischia di far perdere di vista il punto principale, che consiste nella riarticolazione del concetto dal livello nazionale a quello sovranazionale, da non intendersi come una semplice estensione complanare del primo. L’UE rappresenta un esperimento – probabilmente quello a oggi storicamente più significativo – di governance sovrastatale all’interno di un contesto globale segnato dalla moltiplicazione e dalla frammentazione dei livelli di esercizio dell’autorità. La sovrapposizione – o meglio l’incastro – delle istituzioni locali e regionali, nazionali e sovranazionali caratterizza la nuova struttura di governance multilivello in cui lo Stato, pur conservando certamente un ruolo privilegiato, non detiene più il monopolio.

In questo scenario anche la cittadinanza è chiamata a definirsi in base a una pluralità di riferimenti (territoriali e culturali), con i corollari identitari che questo porta con sé, proprio come – lo stiamo imparando in questi anni – su uno stesso territorio possono co-insistere una pluralità di istanze di autorità (Regione, Stato e UE). La strada potrebbe essere quella di processi di costruzione dell’appartenenza che includano la valorizzazione delle differenze in chiave non conflittuale.

Occorre tuttavia evitare che l’idealità conduca a perdere la concretezza che viene dall’essere legati a un territorio. È il rischio di non poche riflessioni e stimoli che spingono nella direzione di una «denazionalizzazione» della cittadinanza, che le fornisca una base etico-politica piuttosto che etnicoculturale. In quest’ottica, alcuni studi valorizzano i segnali della moltiplicazione dei movimenti sociali transnazionali e dell’emergenza di una società civile globale; altri sottolineano la crescita della solidarietà tra i popoli e del sentimento di appartenenza a un’unica umanità e deducono da ciò un progressivo ma inevitabile spostamento dal livello nazionale a livelli più ampi. La cittadinanza multilivello europea però non è un’astrazione.

Un linguaggio ambiguo

Procedere in questa direzione significa impegnarsi in un processo di rielaborazione concettuale e cambiamento culturale condiviso. Per questo le parole e le immagini utilizzate rivestono una grande importanza. Ad esempio, le immagini e i valori a cui si ricorre per presentare la cittadinanza europea in senso stretto risultano davvero attraenti, capaci di mobilitare, di dare il senso di una direzione di marcia? Alcuni esempi ci permettono di cogliere che si potrebbe fare di meglio.

Un recente comunicato ufficiale dell’UE sul tema della cittadinanza afferma: «La cittadinanza europea non è solo una nozione astratta, ma una realtà concreta che procura a ciascuno di noi vantaggi tangibili» (Questions fréquemment posées: rapport 2013 sur la citoyenneté de l’Union, MEMO/13/409, 8 maggio 2013, nostra trad.). La scelta di usare la leva dei “vantaggi tangibili” è davvero quella giusta o ha bisogno di essere almeno affiancata da altre logiche? Oggi vi fanno ricorso i partiti e i movimenti populisti, spesso in chiave antieuropea, chiedendo ai cittadini di farsi i conti in tasca per valutare se davvero conviene far parte dell’UE! Anche l’insistenza sulla mobilità come tratto specifico della cittadinanza europea, in opposizione al radicamento territoriale di quelle nazionali, dà conto di una storia in cui la libertà di movimento ha giocato un ruolo importante, ma rischia di rendere la cittadinanza europea rilevante e quindi attraente solo per le minoranze privilegiate (manager e professionisti di alto profilo) per le quali spostarsi è una opportunità, o per quelle emarginate (lavoratori migranti poco qualificati) per le quali è una necessità.

Qualcosa di analogo vale per il discorso sull’UE, in particolare a livello politico. Oggi esso pare dominato, nella maggior parte dei Paesi, dalla diatriba fra europeisti e antieuropeisti o euroscettici. Entrambe le posizioni mirano ad accreditarsi come “pure” sul piano dei valori. Gli uni tendono a sottolineare l’importanza dell’universalismo e della solidarietà, gli altri a farsi scudo della difesa dell’identità; tutti finiscono così per occultare sotto le rispettive retoriche il fatto che ai valori di cui le idee sono portatrici si affiancano interessi specifici ben individuabili. È un dato di fatto che non va demonizzato, in quanto il mix tra utopie e interessi è parte della dinamica politica democratica; anzi, ha bisogno di essere reso più esplicito: in questo modo nessuna delle diverse posizioni potrà più presentarsi come portatrice di un “bene assoluto” e si aprirà lo spazio della mediazione proprio della politica, mentre i valori di ciascuna smetteranno di essere sbandierati per accalappiare il consenso e potranno misurarsi con il compito della costruzione del bene comune.

L’apertura di uno spazio di discorso politico autentico sull’Europa potrà anche contribuire a cancellare il retaggio dei decenni in cui sull’UE non vi è stato un vero dibattito, in quanto mancavano reali alternative alla prosecuzione del processo della sua costruzione. Questo da un lato ha favorito l’instaurarsi di una retorica burocratica, protocollare e rarefatta, che dà l’impressione di una grande distanza dalla realtà; dall’altro ha permesso ai politici nazionali di utilizzare l’UE come paravento su cui scaricare la responsabilità delle scelte più difficili da presentare all’opinione pubblica: «È l’Europa che ce lo chiede/impone» è diventato un ritornello in tutte le capitali, anche se poi assai di rado gli Stati fanno ricorso al diritto di veto di cui godono in sede UE su alcune decisioni, o anche solo minacciano di farlo. Questa retorica non aiuta a mettere l’Europa in buona luce e a far chiarezza sul suo impatto sulla vita dei cittadini (cfr GRACE E., «Europa: unione in crisi», in Aggiornamenti Sociali, 3 [2013] 208-215).

Per fare gli europei

Dal punto di vista istituzionale l’UE è spesso descritta come un cantiere sempre aperto. Lo stesso vale per la cittadinanza europea. Più che di un dato si tratta di un compito: riarticolare su una base non nazionale gli elementi cardine del concetto di cittadinanza (diritti e doveri; partecipazione; identità e appartenenza), elaborato in un contesto sociale, culturale e politico assai diverso rispetto a quello attuale. Gli attori coinvolti in questo processo sono molteplici: dai cittadini dell’Unione alle sue istituzioni, passando per tutta una serie di “corpi intermedi” (istituzioni statali e locali, partiti, associazioni e organismi della società civile, mass media, ecc.). La costruzione della cittadinanza europea progredirà quanto più essi sapranno cooperare per allestire uno spazio sociale e politico condiviso, dove la cittadinanza europea possa dispiegare davvero le proprie potenzialità.

La tradizione delle democrazie europee riconosce esplicitamente che la cittadinanza si sostanzia in un insieme di diritti e di doveri: basti citare, a riguardo, l’art. 2 della Carta costituzionale italiana. A livello europeo vi è oggi una certa chiarezza sui diritti che conseguono alla cittadinanza dell’Unione, su cui insistono in particolare le iniziative di informazione dell’opinione pubblica; alquanto vaghi e indeterminati appaiono invece i doveri a cui in quanto cittadini europei si è tenuti. Ma ciò non è privo di effetti rispetto alla percezione della comune appartenenza e della solidarietà che ne consegue. I doveri sono potenti almeno quanto i diritti nel mobilitare richieste di partecipazione e trasparenza: basti pensare all’attenzione riservata al modo in cui sono gestite le risorse frutto dell’adempimento dei nostri doveri fiscali. Oggi i nostri doveri di cittadini europei sono adempiuti tramite la mediazione degli Stati nazionali, che trasferiscono a Bruxelles una parte delle imposte e recepiscono le direttive europee nella legislazione nazionale. Questo sfasa la percezione dell’opinione pubblica e ingigantisce il potere effettivamente in mano agli Stati, almeno a livello di immagine (ed è forse questo un aspetto a cui questi non vogliono rinunciare). Una più chiara elaborazione e comunicazione dei doveri potrebbe rappresentare una possibilità di dare maggiore sostanza alla nozione di cittadinanza europea e di renderla più immediatamente percepibile.

Il radicamento del concetto di cittadinanza nel percorso di costruzione della democrazia ci ricorda quanto importante possa essere a questo riguardo l’esistenza di un autentico spazio pubblico in cui la partecipazione in forza della cittadinanza risulti uno strumento per il cambiamento delle condizioni concrete di vita. Se a livello dei singoli Stati l’esistenza di uno spazio di confronto politico reale ha preceduto, e anzi motivato, la lotta per il suffragio universale, a livello europeo il percorso è probabilmente rovesciato. Il suffragio universale già esiste, mentre assai più rarefatto è il dibattito a cui questo consente di partecipare, eccettuati alcuni spazi di consultazione on line messi in piedi dall’Unione, che faticano a diventare punti di riferimento anche per problemi linguistici. Non è un caso che in tutti i Paesi l’affluenza alle elezioni europee sia inferiore a quella delle consultazioni nazionali.

A fianco dello spazio pubblico squisitamente politico, pare infine importante che si sviluppino una opinione pubblica non frammentata dalle frontiere nazionali e narrative in cui i cittadini europei possano riconoscersi superando gli stereotipi nazionali. Assai pochi sono gli americani che discendono dai Padri pellegrini sbarcati dal Mayflower, ma lo spirito che li animava è stato trasfuso nelle “vene” dell’intera nazione (almeno a livello di immaginario collettivo). A livello europeo non disponiamo di qualcosa di simile, mentre probabilmente ne abbiamo bisogno: dall’insegnamento della storia (che differenza farebbe proporla in prospettiva europea, anche rispetto alla lettura dei secoli in cui i Paesi dell’UE sono stati nemici?) alla predisposizione di format televisivi o di piattaforme mediatiche (settore in cui già ci sono esempi interessanti, come il canale Euronews o il sito ), si aprono qui possibili spazi di azione. Non possono però essere operazioni di marketing istituzionale, ma devono potersi collegare ai bisogni concreti delle persone e alle loro risorse: quello che serve è il racconto di come l’Europa costituisca uno spazio condiviso e federatore per un mondo più umano. Il percorso di costruzione del modello sociale europeo e i valori che stanno alla sua base non potrebbero essere riletti per dare vita a una narrativa comune che svolga il ruolo che oltre Atlantico ha il mito della frontiera? Si tratta di un investimento nel capitale sociale europeo, nel senso di costruzione della fiducia tra i partner e nelle istituzioni comuni come strumento di miglioramento collettivo, la cui importanza non è minore della solidità dei bilanci pubblici.

Oggi ci sono probabilmente le condizioni perché il discorso sull’Europa e sul suo futuro abbandoni la retorica eterea che abbiamo segnalato sopra, paradossalmente proprio perché l’idea stessa di UE sembra suscitare crescente opposizione. Tutti i sondaggi indicano che i partiti euroscettici (localisti, nazionalisti, populisti) potrebbero ottenere una significativa affermazione nelle prossime elezioni, tanto che alcuni di essi già si stanno muovendo in vista della creazione di un gruppo parlamentare a Strasburgo. Il gioco democratico prevede l’esistenza di una opposizione e il suo apparire anche a livello europeo potrebbe rivelarsi una buona notizia. A condizione che gli europeisti smettano di stigmatizzare gli euroscettici e decidano invece di esibire le proprie ragioni nel dibattito pubblico. Nei prossimi mesi chi si oppone all’Europa farà di tutto per farsi sentire e, ancora una volta paradossalmente, portare molti elettori alle urne. Chi è convinto che non ci sia un futuro per i nostri Paesi e i nostri popoli al di fuori della casa comune (per quanto sempre da riformare), saprà fare altrettanto? La retorica europeista a cui siamo abituati questa volta potrebbe non bastare e l’esito delle urne europee non sarà privo di effetti anche a livello nazionale.

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