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Bose, nell’umiltà del luogo l’imperativo del Dio solo

Visita alla comunità di Bose

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don Renato Zilio - pubblicato il 03/12/13

In questo luogo di penetrante e fragrante spiritualità si ritrova la figura dell’orante, il discepolo in preghiera ammantato di candore

Su una collina, lungo la serra morenica tra Biella e Ivrea, ai piedi delle montagne piemontesi, imbiancate in questi giorni di neve, una chiesa, un gioiello d’arte romanica del secolo X, conosciuto in tutta la regione. Poi, il paese tutt’intorno nel 1300 emigrò sulla cresta della collina, luogo più sicuro. Restò sul posto la chiesa solitaria, abbandonata, stupenda per le sue pareti di sassi e le sue linee severe. Un campanile leggero si inerpica nel cielo con doppie esili trifore e altri decori, ricordo di mani sapienti, di menti raffinate di artisti muratori, diventati, ormai, essi stessi terra di questi luoghi. Restò in piedi la loro opera, una vera meraviglia.

Come non lontano un’altra meraviglia, ma opera di Dio: un’antica cascina di campagna trasfiguratasi, anni fa, in un luminoso monastero. Bose è il suo nome! E ancora una volta ritrovi lo stile di Dio. Egli posa il suo sguardo su ciò che vi è di più semplice e di più umile nell’uomo per farne un vero luogo privilegiato della sua stessa misericordia e potenza. Centinaia di monasteri, antichi e gloriosi, sparsi in tutta Italia attendono giovani esistenze, per continuare a cantare le meraviglie di Dio, ma è all’umiltà di questo luogo – una sorpresa divina – che hanno attecchito dei giovani virgulti, abbracciando l’antico ideale del monaco: Dio solo.

Entro nella nuova chiesa monastica che sa ancora dell’incenso della celebrazione: penetrante, sottile, intenso. Come un lontano profumo di rosa selvatica si introduce nelle fibre del tuo essere, accompagnandoti. Le volte di legno, a capriate intrecciate, geometriche, grandiose, meravigliano per la loro solidità. Si intravedono il gusto dei lavori in legno massiccio delle nostre antiche campagne e la testimonianza, davanti a Dio, dell’umiltà delle origini di un monastero, un tempo umilissima cascina. Una triade di finestrelle, semplici e strette, sono come gli occhi del catino absidale.

Qui, al mattino presto, già qualche monaco ci ha preceduto e lo si scorge nella penombra. Silenziosamente, ne arrivano altri e veloci, come grani di un rosario, vanno ad aggiungersi agli altri.  Si allineano, al loro posto, in piedi. Sembrano statue, avvolte da questo superbo, lungo abito bianco, per farsi essi stessi preghiera: gesto bellissimo questo appello nel presentarsi a Dio, all’alzarsi dal sonno, nel silenzio più intenso e nella propria dignità. È un forte richiamo al cristianesimo delle origini, alla figura dell’orante, discepolo in preghiera, in posizione eretta, frontale, degna dell’uomo libero, luminoso affresco nel buio tetro delle catacombe.

Risorti come il Maestro risorto, rivolti verso il Padre, così pregavano i primi cristiani, ormai candidati al martirio, a migliaia. Vivevano la dignità di partner del Dio dell’alleanza, loro unica forza, prima di essere sbranati come animali da altri animali o inceneriti come misere torce viventi o crocifissi come vili schiavi ignudi. “Eroiche le nostre origini”, mi dico. Qui, all’alba nascente, in questi giovani profili intravedo nell’oscurità un pregare silenzioso, immobile, eretto, a ricordo di quei giovani di quasi duemila anni fa con la loro stessa preghiera e il loro diverso destino. Alle prime note inizia ad accendersi, gradualmente e sempre più vivida, la luce che invade la chiesa, mentre le vesti bianchissime dei monaci e delle monache, allineati perfettamente, risplendono di un candore che impressiona. Come non ammirare l’ogiva, nel colmo dell’abside, dove un Cristo pantocrator rifulge anche lui in vesti candide, su sfondo rosso-sangue… Ti sembra qui di vivere la sensazione escatologica degli ultimi tempi: miriadi di santi, allora, laveranno le loro vesti nel sangue dell’Agnello per incamminarsi, bianchi di splendore, dietro di lui verso il Padre. L’escatologia, l’aldilà che ci attende, in un monastero come questo, la senti di casa. E poi, discretamente, entra un personaggio meraviglioso: l’incenso. Ben presto si fa invadente, inondando lo spazio e lo sguardo, leggero, disinvolto, visibilissimo nelle sue grandiose volute bianche, ma altrettanto efficace nel sottolineare l’invisibile… È l’innalzarsi umile e profumato della comune preghiera di fratelli e sorelle sempre gradita a Dio.

Attendo, è vero, sempre con emozione, un momento particolare… Intanto, il giovane monaco si scatena nella sua elegantissima danza tutt’intorno all’altare, incensandolo per tre volte successive con un gesto ampio, ritmato, veloce. E poi, dopo avere onorato le icone, scende e si presenta a tutti noi. È qui che l’emozione mi prende. Ed è perché ricorda all’assemblea come essa stessa porti nel suo seno lo Spirito di Dio. Assemblea di Dio da venerare, da incensare! Fortissimo è il richiamo simbolico e l’incenso odorante, profuso generosamente, ti penetra l’anima e ti riconduce là dove Dio stesso ha preso dimora: in te.

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