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I racconti di Guareschi nascono nei lager, alla ricerca della vita e della libertà

Giovannino Guareschi

© DR

Tommaso Spinelli - Centro Culturale "Gli Scritti" - pubblicato il 22/11/13

L'autore delle storie di Don Camillo e Peppone ha vissuto la guerra e il campo di concentramento, lì ha trovato la forza di non odiare e la sua dignità di Figlio di Dio
Se si dice Guareschi, non tutti capiscono subito. Ma se si dice “don Camillo e Peppone” tutti capiscono al volo. A tutti torna in mente quell’angolo dimenticato del mondo: quello spicchio di terra che è nel cuore di tutti e dove tutto è rimasto così come era e come è sempre stato; un mondo contadino, in bianco e nero, dove la messa si celebra ancora di spalle e dove sulla stessa piazza affacciano la chiesa del Cristo parlante ed il municipio dei comunisti.
Un mondo piccolo fatto di storie così vere che per quanto l’autore si sforzi di dire che sono inventate continuano ad esser vere dopo più di 60 anni. È l’autore dei libri italiani del 1900 più tradotti e più letti al mondo, dei film che da più tempo resistono anno dopo anno nei palinsesti televisivi.
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Eppure se si dice “Giovannino Guareschi” pochi lo conoscono, i più vedendo la sua foto lo scambierebbero per Peppone, e se si cercasse in una storia della letteratura il suo nome non apparirebbe.
Giovannino l’avrebbe detta una guerra senza armi la sua, una guerra che era ben consapevole di star combattendo quando diceva di sé: «La cosa è molto semplice: per noi esistono al mondo due idee in lotta: l’idea cristiana e l’idea anticristiana. Noi siamo per l’idea cristiana…».
È questa semplicità sconvolgente che affascina di Guareschi, una semplicità che è frutto di discernimento e non di banalità. La storia di Guareschi è la storia di un’idea, di un’intuizione o forse più semplicemente di un’anima che come dirà lui stesso “ha imparato a dire no”. Un “no” intelligente però, un “no” che propone, perché nasce da un “sì” detto al bene.
Guareschi infatti non è un polemista ma un inventore. Accadde così, quasi per caso, che inventò molti dei suoi personaggi come quando nel 1936 lavorando al Bertoldo si disse : “Non si può essere universali e per tutti se poi si disegnano cose scabrose che gli altri debbono guardare di nascosto dalla moglie e dai bambini”. Ed allora sostituì le donne discinte con le “Vedovone”: grosse signore di paese nuove protagoniste dei suoi racconti umoristici.
Ma questo mondo piccolo di cui tanto si parla da dove viene? Don Camillo e Peppone dove sono nati? C’era il rischio reale che queste storie non vedessero mai la luce. Ed il problema era il vocione possente di Giovannino.

Un vocione così forte che nessuno poté far finta di non aver sentito quando in una sera dell’autunno 1942 prese ad esternare le sue idee sulla guerra e sui fascisti. Dovette andarci giù pesante, perché per farlo rilasciare dalla milizia fascista Giorgio Pini – allora direttore del Popolo d’Italia – dovette chiamare direttamente Mussolini a palazzo Venezia.
I fascisti comunque non dimenticarono quell’episodio e pochi giorni dopo Guareschi fu richiamato per direttissima sotto le armi. Il che per Giovannino era pari ad una condanna a morte. Qualche anno prima, era il 1934, era stato chiamato per la leva nella caserma diretta dal futuro capo di stato maggiore Efisio Marras il quale si vantava di riconoscere un vero soldato a cinquecento passi di distanza: quando si vide comparire Guareschi con indosso la mantellina azzurra da sottufficiale che strascinava gli stivaloni di cuoio intuì così bene le sue doti che lo mise a restaurare il casolare del dispaccio militare per tenerlo lontano dai fucili.
Guareschi molti anni dopo ricorderà nel Corrierino delle famiglie: “ero il più scassato aspirante uscito dalle scuole addette agli ufficiali di completamento”. Con queste premesse nel 1943 si era ritrovato tenente di artiglieria nella caserma di Alessandria.
L’8 settembre, all’alba, si diffuse la notizia dell’armistizio, e si diffusero per le campagne pure i soldati della caserma di Alessandria che, vista l’aria e capito che i tedeschi non l’avrebbero presa bene, si erano affrettati a farsi prestare abiti civili per confondersi tra i contadini e tornare a casa.
Guareschi aveva a casa la famiglia, un figlio in arrivo, ed aveva buttato giù “Le storie del boscaccio”, i primi racconti che lasciavano prefigurare le avventure di Mondo piccolo. Ma aveva fatto giuramento al Re, e vedeva nel re l’Italia quella vera, l’Italia che c’era prima del fascismo. Così con pochi altri decise di restare nella caserma.
Nella “Lettera al postero” egli ricorderà l’epica difesa della caserma: pochi uomini armati di fucile contro i carri armati corazzati tedeschi. Spararono fino all’ultima cartuccia, dopo di che si arresero e furono messi davanti ad un’opzione molto semplice.
La vita di Guareschi è costellata di scelte molto semplici e di risposte altrettanto semplici. Questa volta la domanda fu: o combattere per la Germania o il lager. Giovannino disse: “il lager”. Così si ritrovò su un carro bestiame, con un mestolo d’acqua ogni dieci ore, diretto in Polonia.
I tedeschi volevano piegare gli italiani più che ucciderli e dunque procedettero per fasi successive, più gli italiani si intestardivano più loro davano giri di vite peggiorando la persecuzione. Nei primi dieci giorni Guareschi perse dieci chili. Ormai era il prigioniero 6865 della NordKaserme, un campo di concentramento in periferia di Czestochowa.

Ebbene Peppone e Don Camillo sembrano molto lontani da questo inferno. Eppure senza di esso non sarebbero forse mai nati. Certamente non sarebbero nati se il loro autore si fosse arreso, lasciandosi andare come tanti suoi compagni.
Ma qualcosa di diverso accadde. Il filosofo tedesco Theodor Adorno disse che scrivere una poesia dopo Auschwitz sarebbe stato un atto di barbarie.
Guareschi invece decise di scrivere poesie proprio durante Auschwitz. Non era un gesto facile. Si veniva dal dolore della prima guerra mondiale che aveva spezzato la retorica ottocentesca rendendo frammentato il discorso e frantumata la sintassi; erano gli anni dell’ermetismo, del “Non chiederci la parola” di Montale.
In questo mutismo del dolore Guareschi decise di riprendere la parola. Studiò il suo nemico, efficiente ma cieco sulla verità dell’uomo, ed impugnò la matita come l’unica arma che i tedeschi non curanti lasciavano entrare nel lager. Ed è qui che si temprò quell’animo tenace che si troverà riflesso nel suo pretone di campagna dalle mani pesanti come palanche.
Guareschi capisce nella fame e nel freddo che ha una lotta da combattere, e che se nella caserma di Alessandria aveva dovuto arrendersi perché non aveva più colpi, qui i colpi li aveva, perché i tedeschi ignoravano il potere della cultura.
Fa strano sentir parlare di Guareschi come di un esponente degli illetterati, come di uno contro la cultura. Perché in realtà era contro la cultura degli intellettuali che si dimenticavano di vivere, ma non contro la cultura feconda, quella che fa tornare la voglia di vivere. Così Guareschi decise di cominciare a scrivere, per ingannare il tempo, e scrisse di fatto due diari per un totale di tre piccoli quaderni: uno tutto suo con le sue idee e le sue composizioni (quello che sarà pubblicato nel 1949 col nome di Diario clandestino, contenente estratti del più corposo “Grande Diario”) ed un altro più preciso ed oggettivo che nella sua idea avrebbe dovuto costituire, qualora fosse sopravvissuto, l’ossatura di un dettagliato dossier per inchiodare alle proprie colpe tutti i responsabili di quell’inferno.
In realtà parte di quel diario finirà nella stufa il giorno che Guareschi tornato in Italia deciderà di perdonare i suoi aguzzini, la restante parte invece verrà girata ed usata come carta riciclata su cui scrivere una storia nuova: quella di don Camillo e Peppone, una storia dove l’odio è vinto dall’amicizia, dalla fede e dall’amore.
Su quel primo diario il 1° dicembre del 1943 Guareschi annotava un’importante conclusione, che forse è l’inizio delle nostre storie, l’inizio della resistenza di Giovannino e del futuro di don Camillo e Peppone. «Io non mi considero prigioniero, io mi considero combattente… Sono un combattente senz’armi, e senz’armi combatto. La battaglia è dura perché il pensiero dei miei lontani e indifesi, la fame, il freddo, la tubercolosi, la sporcizia, le pulci, i pidocchi, i disagi non sono meno micidiali delle palle di schioppo… Io servo la patria facendo la guardia alla mia dignità di italiano».
È a questa lotta bianca che fanno riferimento i figli di Guareschi quando scrivono «Ci siamo accorti che, nonostante la sua drammatica condizione, in quella tristissima “officina” del lager stava maturando il mondo di mondo piccolo». Guareschi spezza il silenzio di Montale, sovverte gli schemi del campo e decide che invece di dedicarsi alla sopravvivenza cercherà di vivere e di far vivere.
Capisce che l’unico modo per farcela è non piegarsi a cercare una ferina sopravvivenza fatta di compromessi e ruberie. Fa partire corsi culturali, scrive storie, si dà a pubbliche letture delle sue opere. Paride Piasenti presidente dell’associazione degli ex internati nei lager scrisse: “Guareschi fu una bandiera esemplare di dignità, di coerenza morale incrollabile e di fede nella libertà”. Si vede in Giovannino una forza che lascia davvero presagire i suoi personaggi di mondo piccolo, una forza cosi audace da liquidare in poche parole anche la morte, come se non fosse quello il problema più grande dell’uomo.

C’è un passo, quasi dimenticato, del Diario clandestino in cui si vede l’origine di tutto questo. È forse uno dei brani a cui l’autore dedica più righe ed in cui si vede per la prima volta riaccendersi l’entusiasmo in Guareschi. L’idea della lotta bianca nasce infatti guardando altri soldati, soldati di una strana fortezza: i monaci del monastero della Madonna Nera di Czestochowa, che “con quegli stivaloni neri che si intravedono sotto la tonaca bianca hanno del soldato travestito”.
Il 20 settembre del 1943 i tedeschi organizzarono una piccola gita nella città di Czestochowa con il tentativo di prendere con le buone gli italiani sperando in una loro svolta collaborativa. Per Giovannino questa uscita dal lager sarà un vero pellegrinaggio. Dapprima un senso di vuoto. Un solo mese di lager è bastato a disumanizzarlo: “Il vento corre per le strade e ulula nella mia testa vuota. Mi sembra di essere il disperato…”
Poi una visione in alto, la torre del monastero della Madonna nera, una sorta di cittadella fortificata della fede sorta intorno alla santa icona. Al sentire le storie della resistenza epica dei 220 monaci di quel santuario contro 12.000 russi e al vedere le palle di cannone ancora incastonate nelle mura Giovannino ebbe come uno spunto, un’intuizione di cui arrivò al cuore solo quando entrò nella chiesa.
Annota nel suo diario: “Entriamo nella basilica e ci troviamo (…) davanti ad un altare che è tutto un racconto fiabesco di ori e di luci mentre un organo suona. Dopo un mese di vita in ambienti dove ogni cosa trasuda sporcizia e disperazione, dove ogni parola è un urlo, ogni comando è una minaccia, trovarsi d’improvviso in quell’aria serena…”.
Il contrasto evidente tra il lager e la chiesa era quello tra l’umanità e la bestialità, tra un mondo con e senza Dio. E questo contrasto era riassunto nella millenaria tavoletta della Madonna nera, dipinta sulla stessa tavola su cui si chinò Maria a piangere la morte del figlio crocifisso, e poi peregrina per ottocento anni prima di giungere in Polonia, oltraggiata dalle sciabolate degli ussiti e da una fucilata tartara.
Stava ancora lì quella tavoletta come la popolazione polacca che dal giorno dell’occupazione non aveva più suonato le campane in attesa della liberazione, e guardava a Giovannino prigioniero che improvvisamente tornava a sentirsi libero: “Mi arresto perplesso sull’entrata, poi riprendo ad avanzare, e mi sembra di essermi sfilato dal mio corpo coperto di stracci e d’averlo lasciato lì sulla porta, tanto mi sento leggero. Si leva un canto dalla folla e pare la voce stessa della Polonia: un dolore dignitoso di gente usa da secoli ad essere schiacciata e a risorgere. Di gente che viene uccisa sempre e non muore mai”.
È tempo di tornare nel lager e Giovannino è sul piazzale della chiesa, respira l’aria fredda dell’autunno polacco, vede i boschi sotto il santuario, e le sue emozioni prendono la forma di un motto che irrompe dal cuore: “Non muoio neanche se mi ammazzano!” comincia a ripetere a voce sempre più alta.
Il motto piace e uno, due, dieci, venti italiani cenciosi e smagriti cominciano a recitarlo scendendo verso il campo. È qui che inizia mondo piccolo, nella scelta di vivere, di restare uomini sfidando la morte del lager. È questa la lotta che continuerà in tutti gli episodi di don Camillo e Peppone, la lotta per diventare uomini, per tornare a sentirsi figli di Dio.
Mondo piccolo è il mondo dove il vecchio dottor Spiletti decide di ritardare la sua morte perché prima deve confessarsi da don Camillo, è il mondo dove la morte è domata dalla vita, il mondo in cui l’uomo non è assillato dalla ricerca dell’originalità e vive storie vecchie magari di cento anni ma con la libertà che solo la vittoria sulla morte dà.
Guareschi non è sopravvissuto, ha scelto di vivere. E sarebbe rimasto vivo anche se non fosse mai più tornato dal lager, vivendo nel suo coraggio di esser uomo, e di sfidare i tedeschi per invogliare alla vita i suoi compagni di prigionia.
Con ironia scrive alla Germania dalla sua baracca nel campo: “Signora Germania c’è una grande carta topografica al 25.000 nella quale è segnato, con estrema precisione, il punto in cui potrò ritrovare la fede nella giustizia divina… L’uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n’è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno. E questa è la fregatura per te, signora Germania”.
È di questa libertà quasi sfacciata che profumano i racconti di Mondo piccolo, e ciò che ci fanno rimpiangere è quel tempo in cui avevamo il coraggio di essere uomini. Quei racconti così italiani, così provinciali, parlano ai cuori di persone disperse in tutto il mondo, perché sono stati scritti da un uomo della risurrezione, un uomo che era morto nel lager e che nel lager ha ricominciato a vivere.
Sono storie vive e chi le legge si sente inspiegabilmente bene. Semplici come parabole, vanno diritte all’essenziale, senza eroismo e senza retorica, due personaggi qualunque sono diventati gli eroi del ‘900.
Ed è così, con la stessa semplicità che Guareschi parla anche di sé e della sua storia, che non vede poi tanto diversa da quella di tanti altri, perché ciò che conta è che tutti nasciamo e tutti moriamo ed in quel piccolo intermezzo che è la vita possiamo curarci di far la volontà di Dio oppure no. Così per Guareschi l’unica vera vittoria è stata quella di essere riuscito a non odiare nessuno. “Per quel che mi riguarda, la storia è tutta qui. Una banalissima storia nella quale io ho avuto il peso di un guscio di nocciola nell’oceano in tempesta, e dalla quale io esco senza nastrini e senza medaglie ma vittorioso perché, nonostante tutto e tutti, io sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno. Anzi, sono riuscito a ritrovare un prezioso amico: me stesso”.[FONTE: http://www.gliscritti.it/blog/entry/2262]
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