Potrebbe fornire qualche esempio di quella che definisce “continuità creativa” tra Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco?
I tre papi sono uomini che hanno amato profondamente il Concilio Vaticano II. Wojtyła ha scritto un bel libro sull'importanza del rinnovamento apportato dal Concilio (“Alle fonti del rinnovamento”) e un altro sull'antropologia filosofica che soggiace soprattutto nella “Gaudium et spes” e nella “Dignitatis humanae”. Questo ultimo testo è forse l'opera più importante di Wojtyła come filosofo. Si intitola “Persona e atto”, e la sua intuizione centrale consiste nel mostrare come l'azione riveli la persona, come la persona si trascenda quando obbedisce in coscienza alla verità e come l'essere e il fare insieme ad altri concorrano a creare una vita più umana e solidale.
Benedetto XVI e Francesco hanno assimilato in modo molto esistenziale proprio questo approccio. Nella sua autobiografia, Ratzinger si riconosce “personalista”, ovvero parte di quell'ampio movimento che recupera la trascendenza della persona nell'azione e singolarmente nell'azione insieme ad altri. Francesco, allo stesso modo, è un pastore riflessivo che privilegia la comprensione delle persone in relazione, delle persone in comunità.
Da una prospettiva più teologica, si possono trovare altri elementi di continuità?
Ne segnalo semplicemente due: da un lato il primato della grazia e della misericordia di Dio di fronte ai moralismi neopelagiani contemporanei. I tre papi sono stati estremamente acuti nel denunciare la riduzione del cristianesimo a un mero congiunto di “valori”, a un ideale di “decenza”, a uno sforzo ascetico per raggiungere la coerenza.
Dall'altro lato, concepire la Chiesa come Popolo di Dio che cammina nella storia, ovvero come esperienza di comunione che manifesta empiricamente il Mistero che la fonda, è caratteristico dell'ecclesiologia conciliare e dei tre papi.
Quest'ultimo tema è assai tipico della Chiesa latinoamericana, non le sembra?
In effetti, nella Quinta Conferenza Generale del Consiglio dell'Episcopato Latinoamericano, celebrata ad Aparecida, si afferma con grande evidenza la necessità di superare l'intimismo e la privatizzazione dell'esperienza di fede, ovvero di superare l'idea di vivere la fede al margine di una compagnia.
In alcuni gruppi l'esperienza di comunione, di essere e fare insieme agli altri, si è diluita a tal punto che si concepisce la “communio” come una mera sintonia intellettuale o un mero “sentirsi Chiesa” senza necessità di appartenenza empirica alla carne concreta di una comunità concreta.
In ogni gruppo che vuole riconoscersi come Chiesa dobbiamo reimparare a pregare insieme, ad avvicinarsi ai sacramenti insieme, ad ascoltare la Parola in comunità, a discernere i segni di tempi in comune e così a intraprendere sforzi creativi per la trasformazione del mondo secondo Cristo soprattutto rispondendo al dolore dei più poveri e vulnerabili.