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Giuseppe Coletta: il chicco di grano che muore produce molto frutto

Roberta Sciamplicotti - Aleteia Team - pubblicato il 11/11/13

Una delle vittime di Nassiriya, esempio di un cristianesimo vissuto davvero

Mercoledì 12 novembre 2003, Nassiriya (Iraq), 10.40 del mattino, le 8.40 in Italia. Una macchina si avventa contro la recinzione che circonda il quartier generale delle forze italiane nella città irachena. È un cavallo di Troia: mentre i militari, presi alla sprovvista, sparano contro il primo mezzo, da dietro arriva il vero camion bomba, un’enorme cisterna con trecento chili di tritolo. La palazzina di tre piani che ospita il dipartimento logistico dei carabinieri viene sventrata. Muoiono 28 persone, 19 delle quali italiane: dodici carabinieri, cinque soldati dell’esercito e due civili. Tra le vittime c'è anche il brigadiere Giuseppe Coletta, e Lucia Bellaspiga ha ora scritto con la moglie Margherita Coletta il volume “Nasiriyah fonte di vita. 2003-2013” (Ancora Editrice).

La signora Margherita colpì tutto il Paese per le parole pronunciate dopo la strage, quando prendendo in mano il Vangelo disse “La nostra vita è tutta qui dentro” e lesse il brano che recita: “Fu detto: 'Amerai il tuo prossimo e odierai il nemico'. Ma io vi dico, amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori (…). Infatti se amate quelli che vi amano che merito ne avete?”. “Troppo facile amare chi ci fa del bene, la vera sfida è riuscire a perdonare chi ci perseguita”, disse allora Margherita, che ha ricevuto la grazia di “una fede fatta di granito, più forte di montagne di tritolo”, come si legge nel libro.

“Se il chicco di grano caduto in terra muore produce molto frutto”, dice il Vangelo di Giovanni, ed è proprio quello che è accaduto con la morte di Giuseppe Coletta, esempio insieme a sua moglie di un cristianesimo vero e vissuto fino in fondo anche tra i dolori più atroci, come quello della morte del figlio Paolo a soli sei anni per leucemia. Da quell'esperienza Margherita era uscita rafforzata nella fede, Giuseppe per un anno non era più entrato in chiesa e chiedeva alla moglie come potesse ancora pregare un Dio che le aveva sottratto il figlio, ma poi per mesi era tornato nel reparto di oncologia pediatrica portando doni e sorriso ai piccoli pazienti. “È la sua prima 'missione all’estero', da quel momento darà tutto se stesso per ogni bimbo che incontrerà, anzi, li andrà a cercare dove soffrono di più, dove infuria la guerra, in terre lontane”.

“Nessuno lo obbligava ad andare tutti i pomeriggi all’ospedale pediatrico di Nasiriyah, spesso anche senza armi, nonostante il pericolo che questo comportava eppure lo faceva”, ha confessato Margherita. “In ognuno di quei bambini feriti, malati, a volte morenti, rivedeva il nostro Paolo. Era stato anche rimproverato per il rischio che correva, ma non riusciva a vederlo, o meglio, lo metteva in conto, perché era troppo forte la voglia di portare anche solo un po’ di sollievo a quei piccoli”.

“I frutti di una vita spinta dal fatto di essere cristiano” “sono come un fiore di grazia che nessuno potrebbe programmare”, commenta Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, nella prefazione del testo.

“Quel brigadiere amava la pace più di tanti che la urlano per strada o la usano come slogan”, ha scritto nell'introduzione il giornalista Pino Scaccia, inviato di guerra della Rai.

Margherita Coletta continua da dieci anni a offrire a chiunque la sua testimonianza cristiana. Alla base di tutto, si legge nel libro, “c’è una consapevolezza: che Dio non può permettere il male. Noi, con il nostro sguardo limitato, non capiamo che dietro ogni male apparente c’è di sicuro un bene più grande. Anche la morte in croce di suo figlio sembrava una sconfitta, invece preparava alla salvezza del mondo. Basta fidarsi di Lui: troppo facile amarlo quando tutto va bene”.

“Essere cristiano, ed esserlo coerentemente vuol dire seguire Cristo anche sul calvario accettando le umiliazioni, perdonando le offese e perdendo la propria vita se necessario, proprio come ha fatto Giuseppe”, ha osservato Margherita. “Non occorre che ci buttiamo nelle grandi imprese né che facciamo gli eroi, si può agire ogni momento nella vita quotidiana, perché il nostro destino parte da lì: basta cercare di mettere pace tra le persone, non creare divisioni, rispettare gli altri per quello che sono, a qualsiasi razza o religione appartengano. È a Dio che spetta il giudizio, non a noi: noi dobbiamo solo scegliere il bene”.

Dopo la strage in Iraq è nata l'“Associazione Giuseppe e Margherita Coletta – Bussate e vi sarà aperto”, che vuole proseguire l’opera del brigadiere a sostegno alle popolazioni vittime di guerra, miseria e malattia, soprattutto i bambini.

È nell’associazione che Margherita ha investito il “risarcimento” concesso dallo Stato per l’uccisione di suo marito. “Nessuna somma può ripagare la perdita della persona che si ama, ma proprio per questo per me era importante spenderla in qualcosa che avrebbe sicuramente fatto felice lui. Ai giornalisti che mi chiedevano come avrei voluto che venisse ricordato ho sempre risposto che l’unica maniera utile è di continuare a essere motori di bene, e non parlo solo di solidarietà o associazioni benefiche, intendo dire che ognuno, nel proprio ambito, col proprio lavoro, qualsiasi cosa faccia, può mettere in pratica la sua positività”.

“Chi ha fede deve rimboccarsi le maniche, non perdendo tempo a polemizzare, a condannare le malefatte del mondo”, ha scritto Andrea Bocelli nella postfazione. “Ciò che conta è l’esempio. Giuseppe Coletta è tra coloro che quell’esempio l’hanno dato, che si sono schierati dalla parte del bene sempre e comunque, con la propria vita e con la propria morte”.

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