Invocazioni alla Misericordia infinita di Dio affinché lo liberi dall’amor proprio e lo renda un vero discepoloCome abbiamo osservato nel precedente articolo il genio di Michelangelo è men che mai sdradicato dalla quotidianità umana, piuttosto da questa scaturisce. La “divinizzazione” letteraria dell’artista, voluta in primis da uno dei suoi più importanti amici ed estimatori, Giorgio Vasari (1551-1574), fu ripresa e travisata dalla storiografia ottocentesca e del primo Novecento. Se sfogliando il suo carteggio emergono virtù cristiane quali la speranza e la carità fraterna, un capitolo a parte merita la fede manifestata da Michelangelo, la quale non solo condizionò la carriera, ma anche le opere e le scelte poetiche dello scultore. In maniera compendiaria abbiamo scelto alcuni dei documenti maggiormente rappresentativi e capaci di restituire lo spirito del nostro scultore e di offrire al lettore un nuovo sguardo sulle sue opere.
La meditazione di Michelangelo sul peccato e sulla morte è antecedente alla morte del suo collaboratore e amico Francesco Amadori detto Urbino (avvenuta alla fine del 1555 e della quale abbiamo ragionato nel precedente articolo). Già all’epoca di papa Paolo III Farnese era viva e presente quando l’artista aveva ricevuto l’incarico prestigioso di architetto della fabbrica di San Pietro che portò avanti sino alla fine dei suoi giorni. A tal proposito il Buonarroti chiese che nel contratto fosse detto espressamente che “egli serviva la fabrica per l’amor de Dio e senza alcun premio”. A conferma di ciò nel 1555 troviamo scritto in una missiva indirizzata a Vasari che lo stava sollecitando a tornare a Firenze presso la corte medicea “[…] se io mi partissi sarebe la rovina di decta fabr[i]ca [di San Pietro], sarebbemi grandissima vergognia in tucta la Cristianità e all’anima grandissimo pechato”. Dunque per Michelangelo servire il soglio di Pietro non è una questione economica o di prestigio, ma una missione spirituale che a che fare non solo con la responsabilità di sorvegliare l’edificazione del luogo santo per eccellenza, ma che riguarda la sua stessa personale salvezza.
Tra le rime di Michelangelo forse una più di tutte racconta la fede nella Misericordia infinita di Dio, mostrando un artista non ribelle, ma pieno di passione e di speranza. I versi risalgono al 1555 e ben si accordano al cuore di questo artista nel quale traboccarono le virtù della fede, della speranza e della carità.
Nelle prime due quartine Michelangelo si riconosce peccatore, ma figlio di un Dio che non rinuncia alla sua paternità continuando a ricolmare di grazie il figlio perduto. Nell’ultimo verso della seconda quartina inizia ad invocare Dio affinché lo liberi dall’amor proprio per diventare un vero discepolo.
Le favole del mondo mi ànno tolto
Il [t]empo dato a contemplare Dio
Né sol le gratie sue poste in oblio
Ma con lor, più che senza, a pechar volto
Quel c[h]’altri saggio me fa cieco e stolto
E tardo a riconoscer l’error mio;
manca la speme, e pur cresce ‘l desio
che da te sie dal [pro]prio amor disciolto
In queste seguenti strofe Michelangelo invoca il Padre celeste affinché lo aiuti a raggiungere la perfezione, la santità, poiché per tornare al Padre è servita la morte di Cristo. Lo scultore sente forte il desiderio di combattere ciò che gli impedisce di vivere già sulla terra la “vita eterna” ovvero una vita della qualità di Dio (c’hanzi morte caparri [guadagni] vita eterna). Michelangelo infine si riconosce uomo pienamente solo nella sua figliolanza (Non è più bassa o vil cosa terrena/ Quel che, senza te, mi sento e sono).
Ammezzami la strada c[h]’al ciel sale
Signore mio caro, e a quel mezzo solo
Salir m’è di bisogno la tua ‘ita.
Mectimi in odio quanto ‘l mondo vale
E quante sue bellezze onoro e colo,
c’hanzi morte caparri eterna vita.
Non è più bassa o vil cosa terrena
Quel che, senza te, mi sento e sono
Ond’a alto desir chiede perdono
La debile e mie propria stanca lena.
Infine il nostro artista prega il Padre affinché gli faccia dono della fede, il dono che “annoda” e al quale fa seguito ogni altro dono. La fede viene perciò definita il “dono dei doni” in quanto chiave che apre il cielo e che scaturisce dalla misericordia divina, un amore che si è consumato fino a versare il sangue del Figlio unigenito.
De[h], porgi, Signor mio, quella catena
Che seco annoda ogni celeste dono:
la fede, dico, a che mi stringo e sprono,
né mia colpa, n’ò gratia intiera e piena.
Tanto mi fie maggior quante più raro
Il dono dei doni, e maggior fia se, senza,
pace e contento il mondo in sé non ave.
Po’ che non fusti del tuo sangue avaro,
che sarà di tal don la tua clemenza
se ‘l ciel non s’apre a noi con altra chiave.
L’immagine della fede di Michelangelo si fa viva nelle sue parole e nelle sue opere, egli rappresenta un exemplum virtutis che riecheggia nella storia dell’umanità ed in quella del cattolicesimo. Autore della bellezza, passato alla storia per il suo genio poliedrico, il personaggio Michelangelo cede il posto alla persona di Michelangelo, uomo di fede che seppe vivere il suo rapporto con Dio nella passionalità del suo carattere tanto nel pubblico, quanto nell’intimo del quotidiano.