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Di fronte alla solitudine e all’abbandono, la parola delle religiose

Suore in carcere a Rebibbia

Corinne SIMON/CIRIC

L'Osservatore Romano - pubblicato il 04/11/13

Inchiesta sulla presenza delle religiose nel carcere romano di Rebibbia

di Ritanna Armeni

Suor Rita e suor Carla ogni settimana si recano all’istituto penale maschile di Rebibbia, a Roma. La domenica ascoltano la messa con i detenuti. Alcuni dopo si avvicinano e chiedono di parlare con loro. Altri li conoscono da tempo e anche con loro trovano il tempo per qualche parola. Quegli uomini sono in prigione da anni e hanno ancora molto tempo da trascorrere in carcere. Hanno un passato cupo, un presente triste, un futuro buio, ma con quella richiesta mostrano che qualcosa in loro non si è definitivamente rotto. Il desiderio di comunicare, di farsi ascoltare è rimasto. Suor Lucia è infermiera e si reca invece nel reparto dell’ospedale Sandro Pertini, sempre a Roma, dove ci sono i detenuti malati.

Suor Rita a Rebibbia ci va da dieci anni. Da dieci anni ascolta le loro storie e i loro drammi. «Tutti — mi racconta all’uscita da una delle sue visite — hanno qualcosa dentro che vogliono tirare fuori, che vogliono raccontare. Sono storie terribili che spesso non si sanno neppure spiegare. Uno di loro in carcere per omicidio ancora non sa chiarire neppure a se stesso perché un giorno ha ucciso un uomo e poi lo ha fatto a pezzi e ha nascosto ogni pezzo in un luogo diverso. Continua a ripetere: “perché? Perché?”».

Lei non sembra sconvolta da narrazioni così drammatiche, le sue parole sono calme, intrise di pietà. «Hanno bisogno di qualcuno che li ascolti, che ascolti il loro disagio, che comprenda la difficoltà della loro vita». E spesso il disagio, il dolore non riguarda solo il passato, le colpe commesse, ma anche per la loro vita presente, così come si svolge nelle carceri.

Quando una suora si avvicina a un detenuto non sa nulla di lui. In genere si è recata in quell’istituto di pena spontaneamente, spinta dal desiderio di ascoltare ed è stata ammessa dopo un accordo con la direzione. La relazione fra lei e il detenuto si svolge quindi senza alcuna formalità, senza alcuna direttiva. Le suore sono disponibili ad ascoltare, i detenuti hanno desiderio e bisogno di parlare. Ma perché proprio con le suore? Perché i detenuti spesso preferiscono parlare con loro piuttosto che con altri? Nelle carceri, anche in quelle dell’inadeguato sistema penitenziario italiano, ci sono i medici, gli psicologi, gli assistenti sociali, eppure — è constatato — si parla più volentieri con le suore.

Suor Carla ne è pienamente consapevole: «Sanno bene che noi non possiamo far niente per loro dal punto di vista pratico, ma sanno anche che non abbiamo alcun secondo fine se non l’ascolto. Per questo ci accolgono volentieri». E — aggiunge suor Rita — «capiscono che siamo lì per loro, solo per loro e ce lo dicono. Ci tengono a precisare che quello che dicono a noi ad altri non lo direbbero».

Così l’accoglienza diventa reciproca e spontanea. Il conforto conosce le vie semplici della parola, della comprensione, dell’attenzione, della possibilità di esprimere i dubbi, tutti i dubbi, anche quelli che nessun altro capirebbe. Loro, è evidente, in quella vita di sofferenza continuano a cercare una madre, una donna che rimane al loro fianco qualunque cosa abbiano fatto.

Racconta suor Carla che spesso i detenuti con cui parla alla fine le fanno delle promesse. «Sorella — le dicono — io cercherò di fare tutto quello che lei mi dice perché lei per me è come la mia mamma». Suor Lucia passa fra le celle dell’ospedale e si sente salutare. «Buon giorno mamma», le dicono. Lei si ferma per scambiare due parole. «Non faccio grandi cose — mi racconta — ma ho capito che devo andare lì, fra di loro, che hanno bisogno di me. Nel reparto dove viene ricoverato chi ha problemi psichiatrici qualcuno lo ha detto esplicitamente: “Non voglio lo psichiatra, voglio la suora”. E un altro mi ha pregato: “Suora, non mi abbandoni”. Io non faccio domande, li ascolto, ma so che così li posso aiutare».

Ricorda suor Carla che un giorno, dopo la messa, un detenuto le si è avvicinato per chiederle se poteva ancora dire il Padre nostro. «Perché no? Che dubbi hai?» le ha chiesto la religiosa. «Perché non sono disposto a perdonare» le ha risposto il detenuto. Lui aveva ammazzato l’uomo che aveva violentato e ucciso sua moglie. Era in carcere per quel delitto, stava scontando una dura pena, sapeva di aver fatto una cosa orribile ma, nonostante questo, non era disponibile al perdono, non aveva intenzione di «rimettere» alcun debito e in quella preghiera, si sa, lo si dice chiaramente. Suor Carla ha ascoltato e capito. Chi le parlava non era ancora pronto al pentimento e al perdono, i tempi dovevano essere più lunghi, il percorso era più difficile. «Puoi dirlo il Padre nostro — gli ha risposto — con quella preghiera chiedi a Dio di aiutarti a fare quello che finora non hai fatto. Chiedi che ti dia la forza che non hai. È lo stesso valida e importante».

Su suor Rita, suor Carla e suor Lucia in quelle ore che trascorrono in carcere si riversano tutti i dolori e i dubbi e anche le incertezze del futuro di coloro che in quell’istituto di pena sono costretti a stare per anni.

Anche le paure di chi all’apparenza è un privilegiato perché in qualche modo ha cercato di pareggiare i suoi conti con la giustizia. Suor Rita ha conosciuto molti che si sono pentiti, che sono diventati collaboratori di giustizia che forse, in seguito a questo, potrebbero avere un futuro migliore. «Ma anche per loro — mi spiega — i giorni che verranno sono bui. Devono cambiare
tutto: faccia, abitudini, Paese e poi, dopo alcuni anni in cui hanno l’aiuto dello Stato, comunque sono di nuovo soli. Devono pensare interamente alla loro vita, al loro lavoro, ai loro affetti. Hanno paura e alle suore lo confessano».

Dopo aver parlato con le tre religiose che si recano a Rebibbia mi sono chiesta se il lavoro delle suore nelle carceri è coordinato e diretto da qualcuno, se ci sono dei numeri, dei dati sulla loro presenza negli istituti di pena, se la loro capacità di ascolto è conosciuta e apprezzata. Ho appreso da Virgilio Balducchi, ispettore capo dei cappellani carcerari italiani, che i numeri sono incerti, che solo in questi ultimi tempi si sta tentando un censimento, che per questo si è messo in contatto con l’Unione superiore maggiori d’Italia per costruire insieme progetti e proposte. Per ora, da un primo parziale censimento, si può dire che le suore che vanno negli istituti di pena sono circa duecento, tutte volontarie, perché dal 1975 è finito per legge il loro ruolo di vigilatrici. Rimane la domanda su che cosa spinge questo gruppo di religiose che probabilmente fra di loro non si conoscono, che non sono coordinate da alcun organismo superiore, alla loro missione nelle carceri.

«C’è qualcosa che mi spinge, qualcosa di molto forte — cerca di spiegare suor Lucia — e anche se ci metto ben due ore per arrivare a Rebibbia o all’ospedale Pertini, non salto un giorno di visita. Mi accorgo che le mie preghiere sono sempre rivolte a loro. Ho capito che non potevo abbandonarli per nessuna ragione fin dalla mia prima visita in un istituto di pena. Ricordo che il giorno dopo aver visto per la prima volta un carcere mi sono recata per una cerimonia a San Pietro e tutto il tempo ho pensato solo a quei malati, a quei detenuti. Sono scoppiata a piangere per il loro dolore, la loro miseria».

La loro miseria. Le religiose, malgrado la loro consuetudine al carcer
e, ne sono sempre colpite. «Fin dal primo giorno — racconta suor Carla — mi è stato chiaro che erano i poveri che pagavano più di tutti, erano loro che non avevano un lavoro, che non avevano una famiglia, che spesso non sapevano neppure leggere e scrivere a finire poi in carcere. Alcuni volevano fare la cresima, io davo loro qualcosa da leggere per prepararsi e vergognandosi mi chiedevano se potevo farlo io… Loro non erano capaci».

Di fronte a questa solitudine, a questo abbandono, a questa inimmaginabile povertà la parola delle religiose appare la sola ricchezza, la sola attenzione, il solo dono che chi è in galera riesce ad avere. Per questo i detenuti non smettono di cercarle e loro non smettono di andare a trovarli. Anche se solo per un saluto, una preghiera insieme e la promessa: «Ci rivediamo fra qualche giorno».

(in “Donne chiesa mondo”- Mensile dell’Osservatore Romano del 3 novembre 2013)

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