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Il linguaggio della Chiesa: l’impotenza del modo infinito

Difficoltà di comunicazione

© maradonna 8888/SHUTTERSTOCK

Vinonuovo.it - pubblicato il 30/10/13

Da una teologa tedesca la critica ad una delle forme più usate nell'ecclesialese, quella che evita d'indicare il soggetto e si ferma ad un generico doverismo

di Christiane Florin

Fra le numerose relazioni del congresso dei teologi europei tenutosi qualche settimana fa a Bressanone, colpiva fin dal titolo ("Il dominio del Non: perché il linguaggio della Chiesa è così negativo") quella della giornalista e teologa tedesca Christiane Florin. Il lungo testo è un’analisi severa della comunicazione ecclesiale, con accenti in parte già risuonati in vinonuovo, in parte fin troppo impietosi.

Ne riprendiamo uno stralcio (grazie alla traduzione di Laura Bonvicini), in cui dopo aver lamentato l’impostazione troppo astratta, negativa e difensiva dell’ecclesialese, Florin stigmatizza l’utilizzo ricorrente dei verbi all’infinito: "l’impotenza del modo infinito". (D.and)

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Il Katholikentag del 2012 aveva come motto: "Osare una nuova partenza". Il prossimo a Ratisbona si intitolerà: "Costruire ponti sul futuro".

Avrei anche potuto pubblicare il mio articolo con il titolo: "Trovare un linguaggio nuovo". Ho trovato molti titoli di questo genere, mentre mi preparavo per questa conferenza. Uno particolarmente artistico diceva: "Non produrre nuove divisioni, ma realizzare l’unità nel quotidiano".

"Sperare nell’oggi, essere radicati nell’ieri, amare il domani": è evidente che gli slogan della chiesa credono fermamente nella forza del modo infinito. L’imperativo dei tempi andati non attira più, ora deve farsi avanti l’infinito.

Se poi inframmezzate con "alla luce del Vangelo" e "alla sequela di Gesù Cristo", oppure mettete una o due volte "condivisione", otterrete i più importanti fac-simile per massime ecclesiali e formule di saluto a metà strada tra il moderatamente riformistico e il moderatamente conservatore. Ah già, stavo per dimenticare il "Dio vivente". Questa stoccata a Nietzsche non può mai mancare. Dunque: "Alla luce del Vangelo, realizzare l’unità nella condivisione del quotidiano". Oppure: "Alla sequela di Gesù Cristo, nell’oggi costruire ponti protesi verso il Dio vivente". In questo modo si possono mettere d’accordo interi consigli pastorali parrocchiali, e il parroco saluterà positivamente la cosa. E’ l’opposto del linguaggio escludente, carico di risentimento, dei trionfatori apparenti.

Alcuni mesi fa a Bonn ho fatto da moderatrice in un gruppo di confronto che aveva per tema: "Chiesa e lingua". Ci incontravamo una volta al mese. Nel primo incontro ogni partecipante doveva raccontare quando era stata l’ultima volta che si era sentito interpellato dalla Chiesa. La risposta che andò per la maggiore fu una determinata predica particolarmente toccante. Quando però i partecipanti dovettero esprimersi liberamente e non solo riassumere qualcosa, caddero nell’uso del medesimo modo infinito che prima avevano criticato definendolo "retorica pastorale". Parlavano senza "io" e "tu". Indietreggiavano spaventati, di fronte al collegamento fede-esperienza vissuta. I passi forti sono però quelli in cui si racconta una storia. Qui i verbi in discussione vengono da sé.

Chi è per i ponti, per la partenza, per il rischio, per la speranza, per l’amore e per il Dio vivente, ed è contro il Dio morto, è per qualcosa di positivo. Questa buona intenzione tuttavia inganna. A ben vedere, anche qui regna il "non". Le costruzioni all’infinito non hanno il soggetto. Chi costruirà ponti? Io, tu, noi, oppure loro, i vescovi lassù? Il messaggio che comunque arriva è: si dovrebbero costruire ponti. Si dovrebbe sperare. Da noi in Renania questa "stazione in cui parcheggiare la responsabilità" si chiama "doverismo". Il congiuntivo è fratello dell’infinito.

"Bisognerebbe alzarsi, prendere il proprio letto e andare": una frase così fiacca non avrebbe ridato a nessuno zoppo la forza di camminare. "Alzati, prendi il tuo letto e cammina": questa è una comunicazione chiara. Qui si fa qualcosa, perché entrambi fanno qualcosa: chi parla e chi ascolta.

Quando leggo testi ecclesiastici, siano o meno di consacrati, spesso mi chiedo se chi li ha scritti ha letto le sue opere. Si è ascoltato volentieri durante la lettura? Troppi testi nascono perché c’è una commissione ecclesiastica o teologica che deve far nascere testi. Troppi testi vengono recitati e scritti perché è semplicemente indifferente se qualcuno li ascolta o li legge. La cosa importante è che sono stati accordati i mezzi allo scopo e il superiore è soddisfatto. Anche questo non è un linguaggio invitante.

Il linguaggio aperto da ogni lato di chi ama l’infinito non è il linguaggio di chi si sente vero vincitore. E’ piuttosto il linguaggio di chi vuole salvare ciò che ha, è la lingua di chi ha paura di dire qualcosa di sbagliato e con ciò richiamare la categoria dei correttori dogmatici.

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